All’indomani della visita di Rohani il mondo si è chiesto se la scelta di coprire le nudità della statua dei Musei Capitolini fosse dovuta
Tra scatoloni sulle statue, pernacchie dal mondo e capi del cerimoniale in disgrazia, dopo la visita di Rohani, il mio telefono è diventato rovente come non mai, per non parlare dei profili social: «Hanno fatto bene? Hanno fatto male?».
La risposta, purtroppo, è una: hanno fatto. E su certe frittate è anche un po’ inutile star lì a spadellare.
Eccesso di galateo? Mah…Ignoranza? Forse. Sta di fatto che la faccenda ha dato non pochi grattacapo, non che preziosi spunti, che mi hanno ispirato un vademecum riepilogativo.
Innanzitutto una cosa sacrosanta: quando si va in un Paese è vero che ci si adegua alle regole di quel Paese, ma quando un Paese ospita un capo di Stato, un Regnante o anche solo un ambasciatore in visita, ecco che il protocollo si adopera per mettere a proprio agio l’ospite in arrivo con il giusto mix di tradizione nostrana e attenzioni sartorialmente dedicate a chi viene in visita.
Ed è anche vero che comportamenti che per noi sono l’abc della buona educazione, in altre culture sono addirittura ritenuti offensivi.
Iniziamo con la base: guardarsi negli occhi. Sapevate che guardare dritto una persona negli occhi in un Paese Islamico in una negoziazione è una sorta di sfida a chi tratta di più? O che in un pacifico Paese Orientale come il Giappone, non abbassare il capo mentre una persona parla è un segnale sconveniente che equivale a mancanza di rispetto?
Sempre il Giappone ci insegna, per esempio, che se si ha un raffreddore è meglio rimanere a casa, non sia mai che scappi uno starnuto in pubblico perché «piccolo rumore davanti è solo poco meno grave di piccolo rumore didietro», dicono i saggi.
Tornando nei Paesi islamici, guai a non mangiare tutto quello che ti offrono nel piatto, mentre in Cina, se tocchi la ciotola finale di riso bianco significa offendere il padrone di casa, come se non ti avesse dato abbastanza da mangiare prima.
Arrivare in ritardo in America significa essere subito in black list, mentre in Giappone, specie se non riguarda il lavoro ma la vita sociale, essere fashionably late, è quasi un vanto.
Tutto questo per dire che non è consolatorio dirsi che comunque si faccia si sbaglia, ma ogni sforzo, magari studiando un percorso non intriso di nudità alla ricerca delle opere d’arte capitoline, ha comunque il suo valore.
La mia amica Emanuela Fuin, per non offendere amici francesi, ha inscatolato il bidet. Chissà cosa hanno pensato!
One thought on “La Venere in the box, una questione non solo culturale”
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