“La vita dispari” di Paolo Colagrande – edito da Einaudi – è la storia di un tale Buttarelli, curioso personaggio che – per un altrettanto incredibile difetto fisico – riesce a leggere solo le pagine dispari di libri e quaderni.
Legge a metà anche il resto, la vita sua e quella degli altri, rinunciando a capire e interpretare quello che resta nella pagina destra.
Paradossalmente, è come se davvero gli funzionasse solo l’emisfero sinistro del cervello, quello che poi governa la parte destra del corpo. Ha dalla sua il calcolo, l’organizzazione, il controllo, il blocco.
In lui vince il saper fare sul saper essere. Non brilla invece per leadership, fantasia, cuore e sogno. Qualità che mancano a lui ma non a Colagrande, che ne fa un uso magistrale specie nel linguaggio e, da buon filosofo, nelle digressioni ironiche e nell’irregolare e indecifrabile trama.
La vita dispari di Buttarelli viene ricostruita, all’indomani della sua scomparsa, in maniera scompaginata dal suo amico nullafacente Gualtieri. Andando a ritroso nel passato emergono allora – tra gli altri – la punitiva preside Maribèl, i compagni di classe che non sanno da quale lato del mondo collocarlo, la moglie-maschio Ciarma e la mamma, da sempre vedova che lo spinge a vivere nascosto: «Gli raccomandava… di continuare a fare quell’insieme di azioni mediocri che formano il cosiddetto senso comune, e di cercare di non essere se stesso per una percentuale superiore al venti per cento».
Un comandamento antipericolo che somiglia, solo per un lato, al Lathe biosas epicureo. Leggendo “La vita dispari” viene naturale chiedersi, fino all’ultima riga, se Buttarelli sia stato un genio o un eroe della normalità. La soluzione forse è alla pagina pari.