Lavoratori e test sierologici, i chiarimenti del Garante privacy alle aziende

Il datore di lavoro può richiedere ai propri dipendenti di effettuare test sierologici solo se disposti dal medico competente o da altro professionista sanitario in base alle norme relative all’emergenza epidemiologica. Solo il medico competente, inoltre, può suggerire l’adozione dei mezzi diagnostici idonei a contenere la diffusione del virus e della salute dei lavoratori

A partire dal 25 maggio, il Ministero della Salute e Istat, con la collaborazione della Croce Rossa Italiana, hanno avviato un’indagine di sieroprevalenza dell’infezione da virus SARS-CoV-2 per capire quante persone nel nostro Paese abbiano sviluppato gli anticorpi al nuovo coronavirus, anche in assenza di sintomi. Il test sierologico, che verrà eseguito su un campione di 150mila persone residenti in 2mila Comuni, distribuite per sesso, attività e sei classi di età, oltre all’obiettivo di utilizzare gli esiti anche per altri studi scientifici e per l’analisi comparata con altri Paesi europei, ha lo scopo di individuare le immunoglobuline IgM e IgG, che rivelano la presenza di eventuali anticorpi anti SARS-Cov-2 (Coronavirus). Se il test fornisce un esito negativo, vuol dire che la persona non ha mai contratto il virus, mentre se il risultato è positivo, è necessario approfondire la diagnosi.

I titolari delle aziende stanno sottoponendo i propri dipendenti a tale tipologia di test, che però non sono obbligatori. Essi possono quindi essere praticati solo ai lavoratori che vi abbiano espressamente acconsentito, così come prevede la vigente normativa sulla privacy e la protezione dei dati personali (art, 9, par. 2, lett. h; par. 3 Reg. UE n. 679/16 – cd. GDPR; Codice privacy aggiornato al D.Lgs. 101/18). In data 14 maggio l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali ha infatti pubblicato sul proprio sito istituzionale chiarimenti sugli aspetti legati agli obblighi privacy vigenti che i datori di lavoro sono tenuti ad osservare  nel promuovere screening sierologici nei confronti dei propri lavoratori, in primis specificando che, nell’ambito del sistema di prevenzione e sicurezza sui luoghi di lavoro o di protocolli di sicurezza anti-contagio, il datore di lavoro può richiedere ai propri dipendenti di effettuare test sierologici solo se disposti dal medico competente o da altro professionista sanitario in base alle norme relative all’emergenza epidemiologica.

Invero, specifica il Garante, solo il medico competente, nell’ambito della sorveglianza sanitaria, è in possesso delle competenze necessarie per decidere se particolari esami clinici e biologici debbano essere eseguiti e suggerire l’adozione dei mezzi diagnostici idonei a contenere la diffusione del virus e della salute dei lavoratori. L’azienda può stipulare o integrare le polizze sanitarie o sottoscrivere convenzioni con le strutture sanitarie pubbliche e private presso le quali i lavoratori possono effettuare i test, i cui costi potranno essere sostenuti in toto o in parte dall’azienda medesima. Al datore di lavoro è vietato trattare le informazioni sulla diagnosi o anamnesi familiare del lavoratore, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, mentre allo stesso è consentito trattare i dati relativi al giudizio di idoneità alla mansione specifica e alle eventuali prescrizioni o limitazioni che il medico competente può stabilire come condizioni di lavoro. 

Sempre e solo il medico competente o altro personale sanitario può disporre ed eseguire le visite e gli accertamenti, anche ai fini della valutazione della riammissione al lavoro del dipendente. Quest’ultimo può, in ogni caso, aderire alle campagne di screening avviate dalle autorità sanitarie competenti a livello regionale relative ai test sierologici Covid-19, di cui siano venuti a conoscenza anche per il tramite del datore di lavoro, coinvolto dal dipartimento di prevenzione locale per veicolare l’invito di adesione alla campagna tra i propri dipendenti. La volontarietà caratterizza anche l’adesione alle citate campagne da parte di particolari categorie di lavoratori a rischio di contagio, come operatori sanitari e forze dell’ordine. Quanto alla misurazione della temperatura corporea, il Garante ha precisato che quando è associata all’identità dell’interessato, costituisce un trattamento di dati personali (art. 4, par. 1, 2 GDPR). Il Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro tra Governo e parti sociali del 14 marzo 2020, come aggiornato in data 24 aprile 2020, prevede la rilevazione della temperatura corporea, quale misura per il contrasto alla diffusione del virus da applicare non solo al personale dipendente per l’accesso ai locali e alle sedi aziendali, ma anche a utenti, visitatori, clienti e fornitori, ove per questi ultimi non sia stata predisposta una modalità di accesso separata (Protocollo par. 2 e 3 e nota n. 1).

L’Autorità ha, altresì, precisato che non è ammessa la registrazione del dato relativo alla temperatura corporea rilevata, bensì, nel rispetto del principio di “minimizzazione” (art. 5, par.1, lett. c, GDPR), è consentita la registrazione della sola circostanza del superamento della soglia stabilita dalla legge e comunque quando sia necessario documentare le ragioni che hanno impedito l’accesso al luogo di lavoro.

Qualora, invece, si tratti di visitatori occasionali o clienti, anche se la temperatura risulta superiore alla soglia indicata nelle disposizioni emergenziali non è, di regola, necessario registrare il dato relativo al motivo del diniego di accesso. Il datore di lavoro deve predisporre un’informativa chiara e semplice, da affiggere all’ingresso, individuare i soggetti autorizzati alle operazioni di rilevamento della temperatura, opportunamente istruiti sulle relative modalità di esecuzione, implementare le misure di sicurezza nella registrazione e conservazione dei dati acquisiti e aggiornare il registro dei trattamenti.