La Corte di Cassazione con la sentenza n. 1262/2015 ha solo in parte confermato i verdetti di primo e secondo grado limitatamente alla dequalificazione e mobbing di un lavoratore, ma ha cassato quella di licenziamento
La recentissima sentenza della Corte di Cassazione 1262/2015 conferma solo in parte le precedenti sentenzeemesse sia in primo grado, sia in Corte di Appello, mentre ha ritenuto fondato il ricorso principale nella parte in cui si lamenta il vizio di motivazione in ordine alla effettiva sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
Veniamo al fatto.
Il dipendente, inquadrato nel più alto livello impiegati con funzioni direttive, fu assegnato a nuovo ufficio, ufficio che poi fu dopo soli due mesi soppresso e di conseguenza il dipendente licenziato per giustificato motivo oggettivo. Il dipendente-ricorrente impugnò il licenziamento, adducendo la pretestuosità dello stesso e, anzi, denunziando l’attività persecutoria dell’Azienda che avrebbe architettato un piano per licenziarlo, tant’è che non gli aveva neanche fornito i necessari strumenti informatici indispensabili per esercitare l’attività di responsabile del nuovo Ufficio Marketing. Anche la domanda di risarcimento danni da mobbing era giustificata dal comportamento aziendale persecutorio nei suoi confronti.
La Cassazione ha giudicato correttamente provato il demansionamento sofferto dal ricorrente, richiamando il costante orientamento della S.C. circa il divieto ex art. 2103 c.c. (sostituito e modificato poi dal D.L. promulgato in attuazione della legge 10/12/2014 che all’art. 55 recita: «In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore») di variazioni in peius delle mansioni, da accertarsi in punto di fatto. Nella fattispecie il dipendente, aggiunge la S.C., non è stato messo in condizione di espletare le nuove mansioni perché non disponeva neanche di un computer. In definitiva, si è confermato che “il baricentro dell’art. 2103 c.c. è dato dalla protezione della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro”. Anche riguardo alla situazione di mobbing o di costrittività organizzativa la S.C. ha ritenuto che la sentenza impugnata, che aveva sostenuto che non era stata fornita prova di mobbing, era immune da vizi logico-giuridici. Infatti, perché vi sia mobbing sono necessari comportamenti di carattere persecutorio con intento vessatorio in modo sistematico e prolungato, che producano danno alla salute, dignità e personalità del dipendente.
La S.C. invece proprio sulla questione più importante, vale a dire la legittimità del licenziamento irrogato, ha deciso di cassare la sentenza e di rinviarla presso la Corte di Appello, in quanto ha ritenuto esserci un vizio di motivazione in ordine alla effettiva sussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento. In buona sostanza la Corte di Appello aveva preso atto dell’avvenuta soppressione del nuovo ufficio limitandosi alle sole mere verifiche formali, mentre doveva secondo la S.C. accertare se la creazione e la successiva soppressione dell’ufficio Marketing rispondesse ad una effettiva esigenza aziendale, oppure costituisse solo una artificiosa modalità organizzativa per collocare il dipendente in una posizione lavorativa ab origine destinata ad essere eliminata. In merito a questa sentenza, osservo che è intollerabile la lungaggine processuale. Il licenziamento è, infatti, avvenuto nel settembre 2003 e ancora non c’è la sentenza definitiva. Le conseguenze per le parti in causa sono devastanti.
L’azienda, infatti, teme una sentenza di reintegrazione sia per l’esborso economico elevatissimo, sia per il fatto di dovere reinserire nella sua organizzazione una risorsa difficilmente utilizzabile per tanti intuibili motivi. D’altro canto anche l’ex dipendente ha vissuto e vive da tanti anni una situazione di incertezza che ha condizionato la sua vita lavorativa, familiare e che ha anche inciso sul suo stato di salute.