Licenziamento in corsia: quando una parola di troppo costa cara

Massimo AmbronLa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 16381 del 17 luglio 2014, ha sollevato dal suo incarico un Dirigente medico per mancata partecipazione alle riunioni di équipe e per critica all’operato di un collega, rigettandone il ricorso per addebiti inconfutabili

 

La recentissima sentenza della Corte di Cassazione n. 16381 del 17 luglio 2014 ha stabilito, per mancata partecipazione alle riunioni di équipe e per critica all’operato di un collega, il licenziamento di un Dirigente medico confermando così le precedenti sentenze emesse sia in primo grado, sia in Corte di Appello, e rigettando il ricorso presentato dal dirigente medico dell’Azienda ospedaliera-universitaria con la quale aveva un rapporto di lavoro dirigenziale.

Nei tre gradi di giudizio la posizione dei magistrati è apparsa, quindi, concorde e senz’altro unitaria. Gli addebiti contestati dall’Azienda ospedaliera risultavano comprovati e inconfutabili; le sentenze sono state di conseguenza coerenti dimostrando che, quando vi è attenta gestione e capacità manageriale di portare avanti legittimi procedimenti disciplinari, i risultati si ottengono e assumono importanti significati soprattutto in settori delicati ed essenziali al vivere civile, come quello della salute.

Il dirigente in questione aveva inveito contro un collega, non aveva partecipato alle visite collegiali della squadra di lavoro e aveva fornito ad un utente informazioni scorrette e offensive circa la esecuzione di un intervento chirurgico da parte di un suo collega. Siamo quindi in presenza di plurimi gravi inadempimenti contrattuali che vanno ad inficiare e incrinare irreparabilmente il rapporto di fiducia che è alla base del contratto di lavoro, oltre che a violare i doveri di correttezza e buona fede e gli specifici obblighi contrattuali di diligenza, collaborazione e rispetto degli utenti e dei colleghi, essenziali in un settore di particolare rilevanza sociale come quello sanitario.

In Cassazione, il dirigente si era difeso proponendo ricorso con motivi che però la Corte ha ritenuto del tutti infondati e/o inammissibili.
Il dirigente, infatti, aveva sostenuto che gli addebiti contestati non erano inseriti nel codice disciplinare. La Cassazione ha censurato tale motivo, spiegando che nella fattispecie non vi era tale necessità in quanto il dirigente aveva messo in atto violazioni gravi, avvertite dalla coscienza sociale quale minimo etico.

Aveva, infatti, inveito violentemente contro un collega di lavoro, fornito informazioni denigratorie sull’operato di un collega e non aveva osservato le direttive di lavoro. Inoltre, il dirigente aveva sostenuto che il licenziamento non doveva essere comminato dal Direttore Generale, ma dall’ufficio competente per i procedimenti disciplinari. La Corte ha ritenuto tale motivo inammissibile, perché non proposto negli altri giudizi.
Da ultimo la Corte ha osservato in relazione alle restanti censure sulla gravità degli episodi, sulla proporzione delle sanzioni, sulla valutazione del materiale probatorio che le stesse erano inammissibili perché già adeguatamente valutate nei gradi precedenti con giudizio immune da vizi di carattere logico-giuridico.