La stabilità e la sicurezza dell’intera comunità internazionale, determinata in buona parte dai livelli di vivibilità di ciascuna nazione, si pone come presupposto fondamentale, nel lungo termine, per lo sviluppo e la crescita economica dell’umanità
Il cambiamento strutturale dell’economia occidentale conseguente alla rivoluzione industriale ha imposto un modello capitalistico, retto dal paradigma della crescita della produzione, i cui riflessi sul piano globale hanno posto in evidenza una serie di elementi critici. In linea generale, questo disegno di crescita economica ha determinato un’elevata concentrazione di ricchezza circoscritta ad alcuni paesi accompagnata da un fenomeno di crescente sotto-sviluppo nel resto del mondo.
A partire dagli anni ’70, alla luce dell’evidente rapporto centro/periferia o nord/sud venutosi ad instaurare tra i paesi ricchi e quelli poveri, la letteratura economica ha incominciato ad interrogarsi sul reale significato di sviluppo e sulle forme da esso assunte e, in prospettiva futura, assumibili. In particolare, se per un verso è possibile affermare unanime il favore nei confronti dello sviluppo, per l’altro e in considerazione delle distorsioni che esso comporta, sono messi in discussione i modelli su cui si è plasmato. In altre parole, la prima tematica da affrontare attiene alla risoluzione del problema in termini economici e sociali, del rapporto tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati. Al fine di un esatto inquadramento occorre, però, preliminarmente prendere in considerazione i fattori e le principali teorie elaborate sulla crescita economica.
Segnatamente si distinguono quattro fattori della crescita capaci d’incidere sui livelli di produzione.
Il primo è rappresentato dalle risorse umane con il quale s’intende non solo l’aspetto quantitativo dell’offerta di lavoro, ma anche e soprattutto, la qualità, la professionalità e la specializzazione dei lavoratori. Quest’ultimo rilievo assume ancor maggiore evidenza nelle economie altamente evolute e tecnologizzate in cui l’utilizzo dei nuovi strumenti è subordinato alla professionalità della forza lavoro.
Il secondo, invece, è costituito dalle risorse naturali nel cui alveo sono riconducibili sia la disponibilità di materie prime, sia la qualità dell’ambiente in termini di sostenibilità della produzione e le condizioni climatiche essenziali per alcuni tipi di produzione.
Il terzo elemento è rinvenibile, nella formazione del capitale. Com’è noto questo è sostenuto dal risparmio che si traduce in maggiori investimenti – privati e pubblici – a capitale fisso sociale e nel miglioramento delle infrastrutture e dei macchinari. Infine, il fattore dello sviluppo e dell’innovazione tecnologica inteso come promozione dello spirito e dei presupposti per l’attività imprenditoriale, basato sull’aumento delle conoscente scientifiche e tecniche e delle capacità manageriali. Quest’ultimo elemento ha acquisito una incidenza sempre maggiore nelle dinamiche della crescita economica, tanto da essere oggetto principale delle moderne teorie sullo sviluppo.
Passando, per l’appunto, ad analizzare le diverse teorie sulla crescita è possibile scorgere la diversa rilevanza di volta in volta assunta dai predetti elementi.
Difatti, secondo la teoria classica, riconducibile agli economisti Smith e Malthus, la terra e la popolazione – ossia i primi due fattori analizzati – costituiscono i principali elementi della crescita mentre gli altri due, capitali e innovazione rimangono esclusi da questa analisi, ciò alla luce del periodo storico in cui essa è stata elaborata. Oggigiorno è possibile evidenziare le inadeguatezze di detta impostazione nella misura in cui non appaiono più corrispondenti alla nuova fase dello sviluppo economico caratterizzata prevalentemente dal progresso tecnologico.
Difatti, la scarsità delle risorse e l’aumento della popolazione, che determinano secondo la teoria classica un assestamento dell’economia ai livelli di sussistenza, sono, invece, fattori di crescita se integrati dalla formazione di capitale e dall’innovazione tecnologica. Le inesattezze delle previsioni della teoria classica, spiegate e in parte superate dal modello neoclassico, sono dovute proprio agli effetti non ponderati dell’industrializzazione che ovviarono alla piena operatività della legge dei rendimenti decrescenti. I neoclassici, e in particolare Solow, sostengono, al contrario, che l’accumulo e investimento di capitale rappresenta il presupposto fondamentale della crescita del lavoro e di conseguenza di quella economica. La combinazione dei fattori capitale/lavoro mediante l’incremento dell’intensità del capitale si traduce nell’aumento della quantità di capitale per lavoratore. Tuttavia, nel lungo periodo, tale modello basato esclusivamente sul rapporto capitale/lavoro, se da un lato, giunge a risultati migliori rispetto a quelli malthusiani, dall’altro, lascia intravedere una stagnazione dei salari e un arresto della crescita economica se non accompagnato dal progresso tecnologico.
Sulla scorta di tali evidenze si è venuta a delineare una nuova teoria sulla crescita il cui volano è rappresentato proprio dal progresso tecnologico. In particolare, si distinguono due caratteristiche di tale fattore da cui emergono i benefici in grado d’apportare. Per un verso, si sostiene che l’innovazione è un prodotto del sistema economico e come tale soggetto alle forze del mercato private e all’intervento pubblico la cui interazione determina il diverso livello di progresso nelle varie nazioni. Per l’altro, la tecnologia è ritenuta un bene pubblico e pertanto non rivale i cui costi di ricerca sono elevati ma compensati dalla economicità della sua riproduzione non soggetta ad esaurimento. Pertanto, secondo tale ultima teoria lo sviluppo tecnologico rappresenta il motore dello sviluppo capace di fronteggiare gli effetti della teoria dei rendimenti decrescenti.
Si deve poi aggiungere che il progresso tecnologico ha posto le basi per la creazione delle economie di scala ormai largamente operanti a livello globale. In particolare, queste, collocate in un mercato caratterizzato da concorrenza imperfetta, sono sostenute dall’aumento della produttività o diminuzione dei costi medi di produzione che derivano dall’incremento di tutti i fattori di produzione nella medesima proporzione. Tale modello sebbene abbia costituito un esempio di sviluppo economico “trainato” dal progresso tecnologico, non ha mancato di manifestare effetti collaterali dannosi per quei soggetti pubblici o privati esclusi o svantaggiati, dalle economie di scala come, per l’appunto, le periferie o il sud del mondo.
Sulla base dell’analisi condotta è ora possibile trasporre gli elementi teorici sul piano dello sviluppo economico delle nazioni al fine di coglierne tanto gli aspetti positivi quanto quelli negativi. Innanzitutto si possono analizzare le dinamiche con cui lo sviluppo dei paesi occidentali prodottosi con l’industrializzazione e con l’imperialismo hanno coinciso con il sottosviluppo dei paesi del resto del mondo. Questi ultimi, che hanno adottato modelli di crescita diversi sono accomunati dalle medesime difficoltà nello sfruttamento dei predetti fattori di crescita. I paesi estrattori di materie prime, come ad esempio i paesi arabi, solo recentemente ed in maniera disomogenea hanno potuto trarre vantaggio da tale ricchezza essendo stati preda degli interessi delle bisognose nazioni occidentali.
Similarmente, l’accumulo di capitali su cui si fonda le teoria neoclassica, che rappresenta, tra l’altro, una voce significativa (pari in media al 20% del PIL) nei bilanci delle nazioni sviluppate è stato reso limitato e finanche impossibile nei paesi sottosviluppati in cui la propensione al risparmio è tendenzialmente ridotta e l’intervento statale è poco incisivo. Per contro, le economie investite dal progresso tecnologico hanno ampliato esponenzialmente la loro produzione riducendone i costi ed avvantaggiandosi di un commercio internazionale in cui esse detenevano una posizione egemonica ha accresciuto maggiormente le potenzialità dapprima europee e poi anche americane. In questo contesto approdato da ultimo alla attuale struttura globalizzata, le crescenti istanze volte alla sostenibilità ed alla dimensione umana dello sviluppo hanno posto la questione del rapporto tra sviluppo e sottosviluppo. Questione, questa, etico-morale nella misura in cui è volta alla elaborazione di strategie nella lotta alla povertà ed al rispetto dei diritti e delle libertà dell’uomo la cui più recente manifestazione è rappresentata dallo Human development index con cui si tenta di sopperire alla limitatezza della misurazione dello sviluppo mediante il calcolo del tasso di crescita del PIL procapite. Ma anche economica, nel senso che l’inclusione nel commercio internazionale della globalità dei paesi, per un verso, può essere appannaggio delle nazioni ricche che vedono così ampliati i mercati di sbocco a cui rivolgere le propri esportazioni per l’altro, rappresenta una cornice preordinata in cui i paesi sottosviluppati possono agire in maniera controllata. In questo senso non devono essere sottaciute le preoccupazioni dei paesi sviluppati in termini di crescente competitività di quelli sottosviluppati. Un esempio della loro fondatezza è rinvenibile nelle performance delle “tigri asiatiche” che negli anni ’70 hanno conquistato importanti porzioni di mercato, la Cina e l’India negli anni ’80 e ‘90 che ora si sono attestate tra le maggiori economie mondiali sorpassando la maggioranza di quelle occidentali. Anche i paesi sudamericani hanno registrato un miglioramento rispetto alle condizioni del secolo scorso, soprattutto grazie allo sfruttamento delle ricchezze naturali e ad una efficace integrazione economica e commerciale a livello regionale. A ben vedere le zone del mondo che risultano isolate da questo tendenziale processo di sviluppo sono quelle dell’Africa sub sahariana le cui condizioni sociali e politiche rendono difficoltosa l’attuazione delle opportune strategie economiche.
Così posta la questione dello sviluppo e del sottosviluppo lascia intravedere una molteplicità di fattori e di interessi che nel breve periodo possono essere inquadrati come antagonistici nei termini della competitività della ricchezza delle nazioni ma che, nel lungo, impongono una visione d’insieme in cui la società umana deve adottare le opportune strategie e i modelli idonei a garantire un equo miglioramento della condizioni generali di vita. Quest’ultimo approccio si pone nei termini della necessità sol che si pensi alla crescente intensità della interdipendenza tra le economie e i mercati nazionali alla luce del vantaggio comparato che ne deriva. In via d’ultima analisi, la stabilità e la sicurezza dell’intera comunità internazionale, determinata in buona parte dai livelli di vivibilità di ciascuna nazione, si pone quindi come presupposto fondamentale, nel lungo termine, per lo sviluppo e la crescita economica dell’umanità.