«La cura dell’interesse generale sta a cuore ad una serie di interlocutori degli apparati politici un tempo marginalizzati e oggi parte integrante della deliberazione politica. Non tenere conto di queste “novità” significherebbe svilire la partecipazione, indebolire le pubbliche amministrazioni e il loro operato»
Professor Macrì, nonostante un profondo vuoto normativo è possibile, ad oggi, nel nostro Paese ricostruire con certezza la fisionomia del lobbista e chiarire in quali attività è impegnato?
Il “vuoto” normativo cui si fa riferimento è per certi aspetti un falso problema, nel senso che nell’ordinamento giuridico italiano esiste già una “rete” di disposizioni, alcune anche di rango costituzionale, che legittimano (dall’alto) l’attività di lobbying e la figura del lobbista come professionista delle relazioni istituzionali. Su questa scia, alcuni studiosi ritengono che basterebbe “mettere ordine” all’interno di questo sistema “diffuso” di norme per dare le risposte che servono alla questione sul futuro della lobby in Italia. Resta il fatto che – senza essere per forza cultori di un diritto che “arriva ovunque” e che restringe, anziché allargare, i gangli della partecipazione della società civile organizzata – una legge organica sulla rappresentanza degli interessi particolari (lobbies) appare necessaria agli occhi di gran parte degli studiosi e degli operatori del settore in oggetto, questo per meglio chiarire posizioni e delineare procedure ad hoc finalizzate a fare del lobbying uno strumento migliorativo della democrazia rappresentativa. Pertanto sono fiducioso e credo che i tempi siano finalmente maturi, sempre che la politica abbia a cuore la volontà di compiere un scatto virtuoso e decida di mettere il Paese al passo col resto dell’Europa.
Nel nostro Paese, in tema di lobby, infatti il quadro normativo è molto disomogeneo. La Camera, ad esempio, possiede un registro pubblico dei lobbisti, che ne norma l’accesso alle stanze di Montecitorio, mentre il Senato ne è privo. Se invece finalmente si arrivasse a una legge armonica ed efficace sulla rappresentanza di interessi nel suo complesso, quali ne sarebbero i punti fondamentali?
Una buona legge sulle lobbies dovrebbe partire facendo tesoro dell’esperienza di altri paesi. Lo strumento della comparazione si presta a fornire buone indicazioni, tenendo conto, ovviamente, del contesto politico-istituzionale italiano all’interno del quale la lobby continua a non godere di buona fama. Le leggi – come principio di massima – si caratterizzano come “buone” quando riescono ad adottare innanzitutto una semantica finalizzata a ricomprendere sempre nuove fattispecie; a durare nel tempo, specie in una materia, come il lobbying, per sua natura fluido, sfuggente. Dunque poche norme, ma chiare. Volendo essere schematici, i punti che non possono essere elusi e su cui la politica deve dare prova di grande pragmaticità sono quelli inerenti l’individuazione dei soggetti (chi sono i lobbisti), l’attività di lobbying (in cosa consiste e come si articola: registro, relazioni e memoria documentata) e le sanzioni. Messi in chiaro questi principi necessari, il resto risulterà di più agevole disciplina.
Ma per la buona salute delle pubbliche amministrazioni meglio averle o non averle le lobbies?
La risposta a questa domanda integra quanto detto sopra. La democrazia rappresentativa non passa solo attraverso le formazioni sociali “storiche” (partiti, sindacati, chiese, etc.) – tra l’altro oggi in evidente crisi – ma anche tramite l’azione delle nuove soggettività legate ai cambiamenti sociali ed economici in atto. La cura dell’interesse generale, all’interno di uno spazio pubblico sempre più reticolare, sta a cuore ad una serie di interlocutori degli apparati politici un tempo marginalizzati e oggi invece parte integrante della deliberazione politica. Non tenere conto di queste “novità” significherebbe svilire la partecipazione, mortificare la democrazia, indebolire le pubbliche amministrazioni e il loro operato. Per cui, dotarsi di una buona legge sulle lobbies e sull’attività di lobbying significa garantire standard di efficienza in capo al decisore pubblico e servizi comuni di maggiore qualità.
Revolving doors: cosa ne pensa? Vietare questo costume non solo italiano potrebbe incidere in positivo sul contrasto della corruzione?
Si tratta di un effetto tipico dell’assenza di una legge in materia di lobby. In molti contesti pubblici stranieri sono previsti limiti temporali sul “rientro” – (con una veste diversa), all’interno dei meccanismi delle relazioni istituzionali – di quanti hanno ricoperto responsabilità apicali. Una regola, anche qui precisa, sul c.d. “revolving doors” permetterebbe innanzitutto di mettere gli apparati di governo al riparo dall’azione disturbante che un funzionario di lungo corso potrebbe esercitare sugli apparati se continuasse a frequentare i luoghi delle decisioni a lui noti, facendo “pesare” ruolo ed esperienza. Inoltre, consentirebbe agli organi politici di tutelare meglio il sistema delle informazioni ufficiali anche dal punto di vista delle possibili violazioni di legge perpetrate in ragione di interessi di parte. La conservazione del principio di legalità passa, dunque, dal modo come i poteri pubblici gestiscono lo “spazio fisico” della decisione in relazione a quanti, per motivi professionali, hanno interesse a conservare occasioni di perdurante frequentazione.