Musica nera. È quella che fa da sfondo al romanzo di Andrea Tarabbia che, con furore ossessivo, ripercorre la vita personale e artistica di Carlo Gesualdo, principe di Venosa
Siamo a cavallo tra Cinque e Seicento: il perno attorno cui ruota la narrazione è l’omicidio di Maria D’Avalos – moglie e cugina del principe – e del suo amante Fabrizio Carafa, duca d’Andria e conte di Ruvo.
Un delitto maturato per vendicare – come da convenzioni sociali – l’onta del tradimento subito, ma in fondo non voluto dall’uomo che ancora ama la sua vittima e forse ha già, se non perdonato, capito la veridicità di quell’amore che univa Maria e Fabrizio, così grande da poter affrontare anche la morte. Ferito nell’intimo da quanto accaduto e dilaniato dalla sua coscienza implacabile, Carlo scava nelle pieghe del suo dolore, causandone anche dell’altro attorno a sé per rinfrancarsi e per portarlo all’estremo. Nel suo dolore c’è voluttà e ambizione, perché via via che continua nella sua vita, tra annichilimento fisico e sofferenze psicologiche, in lui cresce la consapevolezza che sia proprio il male dell’animo che si torce a dare vita al suo genio creativo e musicale, alle dolorose armonie dei suoi madrigali.
Tra manoscritti ritrovati – un ruolo di primissimo livello è affidato a Igor’ Stravinskij, che nel Novecento riscoprì e rilanciò il genio di Gesualdo – e inquietanti espedienti narrativi, Andrea Tarabbia forse non testimonia questa storia per ricordarsene, ma per disfarsi di essa. Cosa che non potrà accadere al suo romanzo, vincitore tra l’altro del Premio Campiello 2019.