Il professore ordinario di Diritto del lavoro resta scettico però sulla effettiva attuazione di alcuni contenuti dell’accordo: «Non dimentichiamo che la misurazione certificata della rappresentatività – indispensabile per determinare la titolarità nella contrattazione – è una misura che attendiamo dal 2011»
Professore Maresca, un suo commento tecnico sul Patto della Fabbrica?
Sul piano dell’impostazione delle nuove relazioni industriali ne va sottolineata senz’altro la significativa valenza, anche se resto scettico sulla effettiva attuazione di alcuni contenuti dell’accordo. Non dimentichiamo, infatti, che la misurazione certificata della rappresentatività – indispensabile per determinare la titolarità nella contrattazione – è una misura che attendiamo dal 2011. Con il Patto della Fabbrica oggi si riafferma questo principio, cui si aggiunge la necessità di misurare la rappresentanza anche di parte datoriale. L’impianto concettuale è, anche per questo ultimo motivo, di estremo interesse ma – ripeto – la realizzazione mi pare complessa.
Perché? Quali sono gli ostacoli alla concreta attuazione dell’accordo?
Se non fosse oggi guidato dal professor Tiziano Treu, avrei detto che un primo limite è il ruolo decisivo del CNEL nel perimetrare con esattezza i confini della rappresentatività sia del Sindacato, sia di Confindustria. Rispetto a quest’ultima poi trovo complicato che l’Associazione di Viale dell’Astronomia riesca con facilità a condividere i criteri con le altre organizzazioni datoriali, tenuto conto che in gioco ci sono diversi e differenti interessi.
Ma il problema di rappresentanza nel nostro Paese – o come dicono i più critici di credibilità della rappresentanza – lo si risolverebbe certificando la dimensione effettiva dei sindacati e delle organizzazioni datoriali?
La misurazione certificata dà, anche sul piano formale, una consistenza alla rappresentanza prima impossibile. Il riconoscimento era esclusivamente di fatto, molto forte tra l’altro fino a quando è stato congiunto alla autorevolezza indiscussa delle grandi confederazioni che agivano unitariamente e con una massiccia partecipazione dei lavoratori. Oggi non è più così, per cui il dato formale diventa non solo opportuno, ma indispensabile perché il sindacato recuperi forza.
La politica italiana sul fronte del lavoro cosa è chiamata a fare?
Utili sarebbero solo quegli interventi in direzione di una semplificazione della disciplina del lavoro. Di condivisibile rispetto alle enunciazioni fin qui fatte dalla politica è la rivalutazione e rivisitazione dei voucher. Se opportunamente corretti, potrebbero rivelarsi la risposta ideale ai cosiddetti lavori occasionali, oggi inevitabilmente finiti “nel nero”.
In ogni caso, il governo in tema di lavoro e sviluppo dovrebbe attuare politiche non demolitive, ma semmai di perfezionamento. Lo stesso Jobs Act potrebbe essere perfezionato unificando, ad esempio, la disciplina dei licenziamenti. Niente più articolo 18 ma una tutela crescente generalizzata e migliorata nei trattamenti di fine rapporto. Così facendo non esisterebbero più i lavoratori prima e dopo il 7 marzo 2015 (giorno di entrata in vigore del decreto legislativo n. 23 del 2015 di attuazione della delega conferita all’Esecutivo dall’art. 1, comma 7 della legge 10 dicembre 2014, n. 183, in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, ndr). Un cambiamento a prima vista irrilevante politicamente, ma a mio avviso sostanziale nelle dinamiche di lavoro.