Secondo il professore di Diritto del Lavoro, Arturo Maresca, il legislatore vuole soprattutto spostare il flusso di assunzioni verso il tempo indeterminato
Professore, il primo decreto attuativo del Jobs Act sdogana il contratto a tutele crescenti: quali le finalità che il provvedimento potrebbe centrare? Sarà secondo lei utile a contrastare la disoccupazione giovanile?
Innanzitutto va detto che il Jobs Act rivoluziona l’approccio al tema lavoro, occupazione e tutele. Infatti con il primo decreto attuativo della legge delega il legislatore ha inteso porre al centro del diritto del lavoro il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, rendendolo più attrattivo rispetto alle altre tipologie contrattuali temporanee e flessibili. Tre sono gli interventi per centrare questo obiettivo: l’esonero contributivo triennale per i nuovi assunti a tempo indeterminato, la flessibilità interna al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (con la modifica di due norme dello Statuto dei lavoratori, gli artt. 4 e 13 in materia di mutamento di mansioni e controlli tecnologici) e le tutele crescenti, ovvero i costi prevedibili e certi nel caso di licenziamento ingiustificato. Il legislatore vuole invertire la situazione attualmente in essere, spostando il flusso di assunzioni verso il tempo indeterminato perché oggi su 100 contratti solo 15 sono subordinati a tempo indeterminato.
C’è chi richiama l’attenzione sulla possibile discriminazione che potrebbe crearsi tra lavoratori diversi della stessa azienda ma contrattualizzati prima o dopo il Jobs Act. È un’ipotesi reale secondo lei? Bypassabile come?
Una delle critiche più frequenti mosse al Jobs Act è quella di aver dato vita ad un nuovo dualismo – con difficoltà di natura gestionale per le aziende – perché le nuove regole valgono per le assunzioni effettuate a partire dal 7 marzo di quest’anno. Chi, invece, a tale data era in servizio, non sarà assoggettato al nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo. Se, però, la legge dovesse dare buona prova di sé, con nuove assunzioni a tempo indeterminato da parte delle aziende e senza licenziamenti indiscriminati oggi da alcuni paventati, non è escluso che, in futuro, potrà esserci un’applicazione generalizzata delle nuove norme. Ciò che è certo è che la dinamica di diffusione della nuova normativa sarà molto più rapida di quanto si possa immaginare, in conseguenza del fatto che ogni anno in Italia 3 milioni di persone cambiano lavoro passando da un’azienda all’altra.
Ma, brevemente, come funziona il contratto a tutele crescenti e quali vantaggi possono derivare da questo nuovo strumento?
Non si tratta di un nuova tipologia di contratto di lavoro, ma più semplicemente del regime sanzionatorio applicabile nel caso di licenziamento ingiustificato del dipendente assunto a tempo indeterminato a far data dal 7 marzo. In questo caso la regola generale – prevista dall’articolo 3 comma 1 – prescrive che quando il giudice non riscontra una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento, il datore di lavoro è condannato a pagare un’ indennità – da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità – a fronte dell’estinzione del rapporto di lavoro. In altri termini, quindi, al lavoratore è riconosciuta solo ed esclusivamente un’indennità risarcitoria, mentre eccezionalmente opererà ancora la reintegrazione nel posto di lavoro.
Questo regime di tutela del lavoratore ingiustamente licenziato, deve essere efficacemente combinato con le politiche attive del lavoro finalizzate a ricollocare il lavoratore in una nuova occupazione presso un’altra azienda, in tempi ragionevoli. Il sintesi il legislatore vuole tutelare l’occupazione del lavoratore, non “il suo posto di lavoro”.
Con la nuova normativa del Jobs Act entra infatti in funzione anche il contratto di ricollocazione secondo cui il lavoratore disoccupato ottiene una “dote” individuale che può utilizzare per stipulare con un’agenzia del lavoro autorizzata un contratto che gli fornirà i servizi per la sua ricollocazione. Non ci sono garanzie sull’effettivo e certo reimpiego, ma il corrispettivo per i servizi viene pagato all’agenzia solo a risultato raggiunto ed è diversificato in base alle competenze del lavoratore da ricollocare. Il nuovo impianto potrà quindi funzionare se il regime indennitario previsto per il licenziamento ingiustificato verrà accompagnato dal sostegno alla ricollocazione del lavoratore.
Quali sono i casi eccezionali in cui resta la reintegrazione per il lavoratore?
La reintegrazione sopravvive solo in 5 casi: il licenziamento per motivi discriminatori, quello nullo, quello orale, quello del dipendente divenuto inidoneo nel corso del rapporto di lavoro e quello disciplinare, ma solo quando il fatto materiale oggetto della contestazione al dipendente sia insussistente. In tutti gli altri casi in cui il licenziamento sia carente di giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo od oggettivo ed anche nei licenziamenti collettivi al lavoratore spetterà un’indennità in una misura variabile in relazione all’anzianità di servizio che non potrà essere inferiore a 4 mensilità e superiore a 24. Il sistema sanzionatorio del licenziamento illegittimo si fonda, quindi, sulla monetizzazione del danno subito dal dipendente, come già si verificava per le aziende fino a 15 dipendenti e per i dirigenti.
Presto o tardi finiranno però gli sgravi contributivi previsti dalla Legge di Stabilità per i nuovi assunti. Quali saranno allora i passi che a suo avviso il Governo dovrà compiere per favorire nuova occupazione stabile?
L’esonero contributivo triennale e generalizzato non può essere una misura sostenibile nel lungo periodo, ma serve in questo momento per indirizzare le aziende verso il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. L’abbandono di questa agevolazione dovrà essere graduale con una sorta di decalage. A regime, quindi, le risorse non più destinate a questi esoneri contributivi dovrebbero essere utilizzate per realizzare un abbattimento generalizzato del costo del lavoro, intervenendo sul cuneo fiscale. Come dicevo a cambiare dovranno essere soprattutto le politiche attive del lavoro che – se passerà la riforma della Costituzione attualmente in discussione in Parlamento – troveranno un espresso riferimento anche nella Carta costituzionale. Deve esserci uno diverso approccio anche altema degli ammortizzatori sociali. Le aziende, ad esempio, potranno utilizzare la cassa integrazione solo in caso di accertata necessità che presuppone il preventivo utilizzo delle misure contrattualmente possibili per flessibilizzare gli orari al fine di fronteggiare temporanee difficoltà di tenuta dell’occupazione. La CIG non può più essere utilizzata per mantenere in vita artificialmente un’occupazione che non c’è più, cristallizzando le necessarie azioni di ristrutturazione che aziende e lavoratori devono affrontare. Il Jobs Act sul punto appare chiaro: le risorse saranno indirizzate solo verso chi ha reali necessità di sostegno all’occupazione, non altrimenti fronteggiabili.