Morelli, GI Confindustria: «Senza visione non c’è futuro»

JACOPO MORELLI OKPer il presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria, Jacopo Morelli, il Governo deve per prima cosa abbandonare la navigazione a vista «fatta di piccole riforme, aggiustamenti contabili, revisione dell’esistente, e abbracciare una traiettoria più coraggiosa. Sul fisco e sulla politica industriale, come sulla scuola e sulla spesa pubblica, dobbiamo ripensare l’Italia che vogliamo costruire da qui a 10 anni. E tutto ciò rinegoziando, se necessario, il rapporto deficit/PIL in Europa per consentire di mettere in atto azioni complesse e strutturali»

 

Presidente Morelli, tracciamo un bilancio del Convegno napoletano: perché i ragionamenti fatti non restino puro esercizio accademico, quali proposte emerse nella due giorni – innanzitutto dei Giovani Imprenditori – ritiene siano meritevoli di attenzione da parte del Governo?
Come Giovani Imprenditori e come Confindustria negli ultimi anni abbiamo avanzato decine di proposte operative, individuando azioni specifiche, norme da modificare e coperture finanziarie per attuarle. Ma da questo Convegno credo che l’indicazione maggiore sia stata non tanto nel merito delle azioni quanto piuttosto sul metodo con cui definirle, ossia un piano strategico pluriennale.

 

Se il Governo vuol porre ascolto al messaggio di fondo dovrebbe cioè abbandonare la “navigazione a vista” con cui sta procedendo, fatta di piccole riforme, aggiustamenti contabili, revisione dell’esistente, e abbracciare una traiettoria più coraggiosa. Sul fisco e sulla politica industriale, come sulla scuola e sulla spesa pubblica, dobbiamo ripensare l’Italia che vogliamo costruire da qui a 10 anni. E tutto ciò rinegoziando, se necessario, il rapporto deficit/PIL in Europa per consentire di mettere in atto azioni complesse e strutturali.

 

Da oltre 22 mesi, da quando è stata approvata la riforma delle pensioni, non abbiamo più intravisto alcun altro piano di cambiamento radicale. Ma in una condizione eccezionale come quella delle larghe intese, o si ha la capacità di trasformarle in intese lunghe nell’orizzonte temporale e profonde nella coesione programmatica, per mettere in campo azioni epocali, o è l’ennesima occasione sprecata.

La Legge di Stabilità è divenuta il topic “imprevisto” dell’evento: quali aggiustamenti sarebbero necessari prima della sua approvazione?
L’abbiamo definita una legge di stabilità di nome e di fatto, nel senso che non incide sulle condizioni strutturali della nostra economia. La ratio della finanziaria, abbassare cioè il prelievo fiscale su lavoro e impresa, è giusta ma la quantità delle risorse impiegate è insufficiente.

 

Ridurre di nemmeno un punto percentuale la pressione fiscale in tre anni è un obiettivo modesto, considerando che le nostre imprese scontano un differenziale di 20 punti percentuali sulla tassazione di impresa rispetto a quelle tedesche. O prevedere poche decine di euro in più in busta paga, non può certo risolvere la situazione finanziaria di 9 milioni di italiani che vivono con una spesa al di sotto della soglia di povertà relativa.

 

Per questo, l’unico aggiustamento utile dovrebbe essere quello di aumentare le risorse, per incidere, davvero, sul basso livello di competitività e concorrenzialità del nostro sistema produttivo.

 

In più di un intervento, più di un relatore – emblematico è stato l’attacco sferrato da Carlo De Benedetti, presidente del gruppo editoriale L’Espresso – ha messo in discussione i criteri di selezione e di ricambio della leadership nel nostro Paese, definendo la crisi che stiamo vivendo morale prima ancora che economica. Come si cambiano gli uomini al comando per cambiare il futuro dell’Italia?
Attuando il criterio del merito. Che, purtroppo, è uno slogan buono soltanto per le campagne elettorali ma viene subito dimenticato quando c’è da mettere mano, ad esempio, ad una legge elettorale indecente che favorisce la cooptazione interna, o ai criteri di nomina nelle partecipate pubbliche e locali.

 

Ma non è un problema soltanto della politica: anche la grande industria e le associazioni di rappresentanza dovrebbero interrogarsi se al loro interno applicano davvero criteri meritocratici. L’età media della dirigenza e la consistenza di certe buonuscite anche a manager che hanno distrutto l’azienda loro affidata ci dovrebbe porre qualche dubbio.

Il lavoro sembra il grande assente nelle ultime manovre politiche del Governo Letta, eppure la disoccupazione è a livelli record…I Giovani provocatoriamente hanno chiesto di cancellare il primo articolo della Costituzione…
Non abbiamo chiesto di cancellarlo, ci mancherebbe, ma anzi di applicarlo di più, tutelando e promuovendo il lavoro dal punto di vista fiscale, della formazione, del valore sociale e culturale. Oggi in Italia è più conveniente investire in immobili o in obbligazioni finanziarie piuttosto che creare una start up, ammodernare l’azienda, assumere. Ma un Paese che incentiva più la rendita che la produzione è un Paese che tende solo all’autoconservazione e quindi, inesorabilmente, al declino. 

Un’ultima domanda: se dovesse raccontare dell’Italia a un suo collega estero, quali aggettivi utilizzerebbe oggi e quali si augura di utilizzare nel prossimo futuro?
Tenace, capace, audace. Tenace perché “nonostante tutto” riusciamo a restare il secondo paese manifatturiero, a brevettare, ad accrescere quote di mercato in settori sensibili e ad alto valore aggiunto come la robotica. Capace perché ce lo testimoniano i tanti italiani che sono alla guida delle più prestigiose università e centri di ricerca all’estero, come il MIT, che vegono contesi per ridisegnare le capitali mondiali, che sono ambasciatori di gusto e ricercatezza nel food e nel luxury. Audace, perché sono convinto che, come abbiamo superato l’8 settembre del 43, anche questa volta avremo il coraggio e anche la temerarietà per dare un taglio al passato e riprenderci il futuro.

E poi la sorte aiuta gli audaci perché l’audace è sicuro di sé, e non esiste forza più grande.