Tra le priorità della lotta alla povertà, oltre ad una riforma del reddito di cittadinanza, dovrebbero rientrare la riduzione della dispersione scolastica e il recupero dei divari di apprendimento, amplificati dalla Dad; un piano straordinario per l’occupazione giovanile e femminile a bassa scolarità e la perequazione territoriale nell’offerta di asili nido
Professoressa, l’emergenza coronavirus ha ampliato le povertà tradizionali, o ne ha create anche di nuove? Il Paese, in termini assoluti, è diventato più povero?
Per valutare quanto è successo dobbiamo tener conto di due fenomeni di segno opposto. La riduzione della povertà assoluta, conseguente all’introduzione del reddito di cittadinanza, che ha comportato per la prima volta un investimento economico notevole nella lotta alla povertà, e l’aumento della povertà conseguente al blocco delle attività durante la pandemia. Sicuramente alle figure più tradizionali di poveri se ne sono aggiunte delle altre, provenienti dal ceto medio.
Bisognerà vedere se per quest’ultime si tratterà solo di un transito nell’area della povertà, o gli effetti della pandemia saranno più duraturi e contenuti solo in parte dai cosiddetti “ristori”, le misure a favore di chi era in difficoltà. Per rispondere alla seconda parte della sua domanda, è cioè se il Paese è diventato più povero, possiamo dire che non tutti sono stati colpiti allo stesso modo. Secondo una stima della Banca d’Italia le famiglie del quinto più basso della distribuzione del reddito hanno subito una riduzione due volte più ampia di quella subita dalle famiglie del quinto più elevato, cioè delle famiglie più ricche. La pandemia ha accresciuto le disuguaglianze in un Paese già fortemente disuguale come il nostro.
La pandemia ha svelato molte verità nascoste, o quasi, del nostro Paese: un sistema sanitario fragile, un sistema scolastico negletto, asimmetrie e iniquità sociali e geografiche. Chi ha pagato il prezzo più alto della crisi finora in relazione all’età e chi, invece, in relazione allo status occupazionale?
In termini anagrafici sicuramente i grandi anziani, per il costo di vite umane, e i minori e gli adolescenti per la riduzione delle occasioni di socialità a scuola e nel tempo libero. In termini occupazionali le principali vittime sono state le donne, perché occupate nei settori più colpiti dal blocco delle attività economiche e con contratti a scadenza che non sono stati rinnovati. Nei primi nove mesi del 2020 si sono persi 94mila posti di lavoro femminili, cioè più di quelli creati dal 2008 al 2019 che erano pari a 89mila.
Le disparità di genere saranno amplificate?
Il lavoro a distanza ha messo in evidenza come in Italia esistono ancora gravi problemi di conciliazione lavoro-famiglia. Per fortuna sono problemi sempre più condivisi nelle giovani coppie, ma le donne sono quelle che stanno pagando il prezzo più alto. Non è il numero di figli in sé che tiene le donne lontano dal mercato del lavoro, ma la qualità ed entità dell’offerta di servizi. Non a caso nei paesi come Spagna, Italia, Grecia e Malta dove il tasso di fecondità è inferiore a 1,4 figli per donna, il tasso di occupazione femminile è inferiore al 60%; mentre nei paesi scandinavi, nel Regno Unito e nei paesi baltici il tasso di fecondità è superiore a 1,7 e lo è anche il tasso di occupazione (più del 70%, con punte superiori all’80% come in Svezia).
L’Italia poi è anche il paese che ha il più forte divario tra figli desiderati e figli realmente avuti, un indicatore che si chiama appunto divario di fertilità. Detto questo poi è indubbio che permangono anche forti stereotipi di genere. Secondo dati dell’Eurobarometro, in Italia una persona su due è d’accordo con l’affermazione «il ruolo più importante della donna è quello di accudire la famiglia e i figli». Tanto per avere un’idea in Svezia solo l’11% è d’accordo con questa affermazione. E infatti in quel paese le donne guidano gli autobus, fanno il carpentiere, trovano lavoro anche in settori considerati tradizionalmente maschili e anche quando non hanno titoli di studio elevati.
Reddito di Cittadinanza: secondo lei andrebbe abolito o rivisto?
Il reddito di cittadinanza non va abolito. Va riformato per correggere quegli aspetti che provocano disparità tra poveri, a seconda dell’età e della composizione familiare per una applicazione tecnicamente discutibile della scala di equivalenza; discriminano in modo pesante gli stranieri non comunitari; scoraggiano la partecipazione al lavoro da parte di chi sarebbe in grado di lavorare almeno parzialmente dato che ogni euro guadagnato viene scontato dall’importo del reddito di cittadinanza. Inoltre andrebbe superata la separazione oggi in atto tra patto per il lavoro (per chi è teoricamente in grado di lavorare) e quello legato al patto per l’inclusione per chi non è occupabile poiché in una famiglia ci possono essere individui con caratteristiche diverse (ad esempio adulti e minori, persone con o senza carichi di cura, abili e inabili al lavoro), che dovrebbero poter accedere all’una o all’altra possibilità, senza seguire il destino dell’intestatario del reddito.
Vorrei tuttavia ricordare a chi demonizza il reddito di cittadinanza che, in tutti i Paesi occidentali democratici, esiste una misura di sostegno al reddito dei poveri e in tutti i paesi europei si registrano piccole percentuali (anche in Italia non siamo oltre il 2%) di casi di frode. Noi non siamo un’eccezione né nell’uno, né nell’altro caso. L’eccezione è semmai nel fatto che in nessun Paese questa misura è stata proposta, come in Italia, come una politica attiva del lavoro e non di lotta alla povertà.
Generalmente lei si sottrae dal dare «consigli al principe sull’arte di governare», ma se potesse indicare soluzioni a chi ha responsabilità politiche, quali sarebbero quelle necessarie da attuare per contrastare la povertà e quali le più urgenti?
Bisogna avere molta umiltà perché non sappiamo cosa ci riserverà il futuro. Tra le priorità della lotta alla povertà, oltre ad una riforma del reddito di cittadinanza nella direzione indicata, dovrebbero rientrare la riduzione della dispersione scolastica e il recupero dei divari di apprendimento che non sono stati creati ma amplificati dalla Dad; un piano straordinario per l’occupazione giovanile (anche attraverso una revisione dei tirocini e dell’apprendistato) e per l’occupazione femminile a bassa scolarità; il recupero del patrimonio abitativo pubblico e sostegno alla ristrutturazione del patrimonio privato di bassa qualità (ad esempio i bassi napoletani) attraverso incentivi ai proprietari, la perequazione territoriale (Nord/Sud ma anche centro/periferia) nella offerta di asili nido perché come diceva Don Milani «non si possono fare parti uguali tra disuguali».
La povertà, come la ricchezza, si eredita e per interrompere la catena intergenerazionale di trasmissione della povertà bisogna agire subito, già a tre anni potrebbe essere troppo tardi.