Morte da stress: la Cassazione riconosce la responsabilità del datore di lavoro

massimo ambronL’azienda risponde dei danni alla salute, subiti dal lavoratore deceduto a causa del superlavoro

La sentenza della Corte di Cassazione n. 9945 del 8.5.2014, depositata di recente, conferma le precedenti sentenze emesse sia in primo grado, sia in Corte di Appello, rigettando il ricorso presentato dall’azienda presso cui era dipendente lo sfortunato lavoratore deceduto a causa dello stress da superlavoro.

La sezione lavoro della C.C. ha riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro e il diritto degli eredi al risarcimento dei danni nel caso di morte del dipendente per infarto da superlavoro.

Nei tre gradi di giudizio la posizione dei magistrati appare quindi concorde e senz’altro unitaria. La fattispecie è particolare, in quanto le domande risarcitorie del danno patrimoniale e morale, presentate dalla vedova del dipendente in proprio e in qualità di legale rappresentante della figlia, avevano come motivazione e sostegno il comportamento dell’Azienda, che aveva gravato di lavori e responsabilità stressanti e ritmi insostenibili, sollecitando il dipendente, quadro aziendale, a rispettare scadenze non rinviabili, negandogli collaboratori e/o omettendo di accertarsi se umanamente era possibile il raggiungimento degli obiettivi che continuamente gli venivano imposti.

Egli per conseguire i risultati richiesti era costretto a lavorare oltre 11 ore in ufficio e poi a casa anche di notte! In buona sostanza il dipendente era sottoposto quotidianamente a orari sovrumani, che non gli concedevano tregua.

Il datore di lavoro, invece, sosteneva che i carichi di lavoro non erano assegnati dall’azienda medesima e che i ritmi così serrati non erano connessi a volontà datoriale, ma era lo stesso dipendente per zelo e diligenza forse eccessiva, per amor proprio e/o per fare carriera, per aspetti caratteriali a coinvolgersi nelle attività, mostrandosi sempre disponibile a lavorare con il massimo impegno e coinvolgimento. L’azienda sosteneva di non averlo mai sollecitato a lavori insostenibili, né poteva conoscere le modalità di lavoro del dipendente, che non si era mai lamentato di nulla. Quindi l’infarto sopravvenuto non poteva essere attribuito a responsabilità aziendali.

In buona sostanza, per la Società E. – operante nel settore delle telecomunicazioni – era il quadro aziendale che “si stressava”, mentre per i suoi familiari che hanno presentato ricorso era la Società medesima a “stressarlo” a tal punto da procurargli il danno irreversibile.

Gli articoli di legge di riferimento più significativi sono il 2087 e 2104 c.c..

Il primo il 2087 c.c. riguarda la tutela delle condizioni di lavoro, rispetto alle quali «l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».

 

La Corte ha preso atto che nei precedenti gradi di giudizio era stato provato che il danno subito era collegato alle condizioni di superlavoro e dai ritmi insostenibili imposti dall’azienda; anche la perizia medico-legale aveva accertato che l’infarto era riconducibile alle vicende lavorative, in via concausale e con indice di probabilità di alto grado. Emergeva quindi una responsabilità sia pur indiretta da parte dell’azienda che non poteva non conoscere il superlavoro svolto dal quadro aziendale e di conseguenza immaginarne il possibile danno alla salute.

Già la Corte di Appello aveva osservato che la responsabilità del modello organizzativo e della distribuzione del lavoro fa carico alla Società, che non può sottrarsi agli addebiti per gli effetti lesivi della integrità fisica e morale dei lavoratori che possano derivare dalla inadeguatezza del modello organizzativo adducendo l’assenza di doglianze mosse dai dipendenti o sostenendo di ignorare le particolari condizioni di lavoro in cui le mansioni affidate ai lavoratori vengono in concreto svolte. Deve infatti presumersi, salvo prova contraria, la conoscenza in capo all’azienda delle modalità attraverso cui ciascun dipendente svolge il proprio lavoro in quanto espressione e attuazione concreta dell’assetto organizzativo adottato dall’imprenditore con le proprie direttive e disposizioni interne. Tutti gli accertamenti compiuti dal giudice di merito comprovavano che la oggettiva gravosità ed esorbitanza dai limiti della normale tollerabilità non erano in alcun modo riconducibili a iniziative volontarie del dipendente, quadro aziendale, di addossarsi compiti non richiesti o di svolgere incarichi o assumersi responsabilità di propria iniziativa.

Altro art. di riferimento è il 2104 c.c. primo comma, in base al quale «il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse della impresa e da quello superiore della produzione nazionale».

Nel caso di specie l’azienda ha anche sostenuto che vi è stato eccesso di diligenza da parte del prestatore di lavoro. La diligenza è un valore richiesto e non può diventare una colpa, né può attenuare l’obbligo da parte del datore di tutelare la salute dei propri dipendenti.

Questa triste e dolorosa vicenda è sicuramente per le aziende un monito affinchè abbiano sempre la massima attenzione alla salute e integrità dei propri dipendenti, ma deve anche fare riflettere questi ultimi affinchè rispettino con il necessario zelo contratto e norme, non trascurando però la propria salute e famiglia.