Il presidente di Confindustria Caserta: «Negli ultimi anni la politica ha favorito una narrazione del mondo dell’industria non fedele alla realtà, identificando gli imprenditori non come veicoli di sviluppo ma considerandoli con un certo fastidio»
Presidente, punto focale della relazione di Andrea Prete è la totale indifferenza della politica verso la crescita zero dell’economia. Una disattenzione che arriva da lontano e che non riconosce all’impresa un ruolo cruciale nello sviluppo del Paese. Condivide questa prospettiva?
Negli ultimi anni la politica ha favorito una narrazione del mondo dell’industria non fedele alla realtà, identificando gli imprenditori non come veicoli di sviluppo – così come previsto dalla Costituzione – ma considerandoli con un certo fastidio. Ho l’impressione che negli ultimi tempi si stia affermando una teoria secondo cui sia quasi auspicabile una decrescita felice.
Nel Mezzogiorno – e più segnatamente in Campania – sono tante le crisi industriali aperte, la gran parte delle quali di difficile soluzione. Senza aprire una caccia all’untore, chi o cosa è responsabile di questa emergenza?
Le dinamiche economiche mondiali e gli effetti della globalizzazione hanno portato profondi mutamenti, su scala planetaria, dell’economia e delle abitudini nei vari territori. In quest’ottica soffrono maggiormente quei Paesi industrializzati “labour intensive”, con molta manodopera, che non hanno colto la necessità di una profonda e rapida innovazione dei processi produttivi e di formazione. Il Sud, che in questi processi storicamente fa registrare un passo rallentato, vive una maggiore difficoltà.
Dilaga il fenomeno migratorio specie delle migliori energie del Mezzogiorno. Anche questo è un problema di attrattività? Come arginarlo?
Le migliori energie sono sempre attratte dagli scenari più stimolanti e dinamici. Il Sud soffre di una doppia emigrazione, una verso il Nord Italia e l’altra verso l’estero. Queste risorse, poi, non fanno rientro alla base e quindi non contribuiscono a ridurre il gap tra Nord e Sud. Una delle soluzioni che sembra funzionare è il modello Apple, che a Napoli ha unito un’attività di alta ricerca con risorse umane locali e di eccellenza, contrastando così il fenomeno della desertificazione intellettuale del territorio. Un altro esempio virtuoso per attrarre investimenti e intelligenze è quello delle ZES (Zone Economiche Speciali), che finalmente dovrebbero partire e che costituiscono una storica opportunità di sviluppo per il Mezzogiorno e per l’Italia intera.
Eppure ci sono Paesi che tengono insieme presenza dello Stato e qualità dei servizi. Da noi perché non si riesce?
Dobbiamo tutti impegnarci affinché lo Stato, che non è un qualcosa di estraneo a noi stessi come spesso viene considerato, venga valorizzato e non messo da parte. Pubblico e privato devono viaggiare nella stessa direzione ed essere complementari e non concorrenti.
C’è una geopolitica e una geoeconomia di interessi, nord e sud, difficile da mediare. Ce la faranno a stare insieme ma soprattutto il Paese – secondo lei – dove andrà?
Storicamente è dimostrato che, in presenza di sviluppo eterogeneo, il sistema Paese non regge. Come imprenditori, sia del Nord che del Sud, abbiamo i medesimi interessi, ovvero la crescita sana del tessuto delle imprese, con conseguenti benefici economico-sociali per l’intera comunità.