Note di variazione IVA: l’incubo dell’accordo transattivo

 

Secondo l’articolo 1965 del Codice civile la transazione è il contratto con il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, possono creare, modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti, ponendo fine a una lite già incominciata o prevenendone una che può sorgere tra loro.
La transazione può avere due nature: dichiarativa e novativa e ciò dipende dal suo contenuto, teso a mantenere intatte le pattuizioni da cui è originata la lite nel primo caso, ovvero a costruirne delle nuove nel secondo caso.
La transazione ha una sua rilevanza, ai fini delle imposte indirette (IVA e Registro), potendosi generare in ciascuno dei casi sopra indicati, specifici presupposti per l’applicazione di tali tributi, a seconda della natura del rapporto originario, del tipo di impegni che vengono assunti, delle attività a farsi in esecuzione della transazione, delle formalità adottate e così via.

E tali presupposti impositivi possono determinare talvolta conseguenze molto penalizzanti. Vale la pena ricordare, fra tutti, un intervento di prassi dell’Agenzia delle Entrate (AGE) che arrivò a qualificare imponibile ai fini IVA “l’obbligazione di fare” rappresentata dall’impegno che avevano assunto le parti nella transazione, a estinguere gli atti di giudizio.
Ciò fa capire quanto il tema in oggetto sia sensibile in campo tributario, soprattutto quando a valle della transazione, una parte debba rettificare gli importi fatturati alla sua controparte, per addivenuta composizione della lite, sorta sull’adempimento delle reciproche prestazioni.

A tal proposito in sede IVA l’art. 26 comma 2 DPR 633/72 stabilisce che se un’operazione per la quale sia stata emessa fattura viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l’ammontare imponibile, in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili, il cedente del bene o prestatore del servizio ha diritto di portare in detrazione l’imposta corrispondente alla variazione.
Il beneficio della emissione della nota di credito IVA, tuttavia, in base al comma 3 del suddetto art.26, non spetta, qualora il venir meno della prestazione (in tutto o in parte) sia dipeso da un accordo tra le parti, intervenuto dopo un anno dall’effettuazione dell’operazione imponibile che ha generato la lite.

Questa limitazione normativa ha fondate motivazioni antielusive, perché tende ad evitare che le parti con un semplice accordo tra loro, possano – anche dopo anni – modificare il rapporto sulla base di convenienze meramente fiscali. Tuttavia, quando la variazione dell’operazione iniziale non sia avvenuta per effetto di un provvedimento di un giudice (dichiarazione di nullità, annullamento e così via), ma per una transazione effettuata nell’ambito del giudizio e che ne determini anche la sua estinzione, può sorgere un tema fiscale delicato.

Infatti, ai fini dell’applicabilità dei commi 2 o 3 dell’articolo citato, dalla analisi della prassi dell’Agenzia delle Entrate, emerge che vi possono essere addirittura tre distinte ipotesi transattive, le cui ricadute fiscali non sono uguali.
La prima fattispecie di transazione è quella che discende direttamente da una sentenza di un giudice, nell’ambito dei citati casi di giudizi di nullità e similari ed in questo caso, la emissione della nota di credito potrà avvenire alla data di detta sentenza, senza limiti di tempo massimo.
La seconda che deriva da un mero accordo privato tra le parti senza l’intervento dell’Autorità Giudiziaria e in tal caso l’emissione sarà consentita solo se detto accordo avvenga entro un anno dalla operazione principale.
La terza è rappresentata dall’intesa raggiunta tra le parti a valle di una sentenza o nel corso di un giudizio, che, nonostante sia inserita in un contesto giudiziario, dovrà invece inopinatamente seguire le stesse “regole” del limite annuale dell’accordo privato senza intervento del giudice. In questo senso va anche la recente Risposta n.387/2019 dell’Agenzia delle Entrate, la quale ha confermato la sua posizione rispetto alla normativa sul tema delle note di variazione nell’ambito di un accordo transattivo in corso di giudizio.

Il caso riguardava una società di leasing che aveva effettuato degli acquisti di beni da un fornitore per utilizzarli presso un proprio cliente, sui quali al momento della consegna erano stati riscontrati alcuni vizi.
Ne era scaturita una lite giudiziaria, con l’intervento anche di un consulente tecnico del giudice, che veniva poi dichiarata estinta, per effetto appunto del “famoso” intervenuto accordo tra le parti, che prevedeva in particolare la riduzione del prezzo della vendita dei beni.
Anche in questa circostanza, ad onta del procedimento giudiziario innescato, dei periti coinvolti e del tempo trascorso, l’Agenzia delle Entrate ha stabilito che la riduzione dell’imponibile non era dipesa da disposizione del giudice ma da un accordo privato tra le parti.

Conseguenze? Nessun recupero dell’IVA. La fattispecie non era inquadrabile nel secondo comma dell’art.26, bensì nel terzo, e siccome era già decorso l’anno dalla effettuazione dell’operazione, il diritto alla detrazione dell’IVA era banalmente scaduto e la nota di credito poteva essere emessa per la sola componente imponibile, lasciando alle parti il litigio (di nuovo in sede civile…) per la restituzione dell’IVA.

L’impostazione, naturalmente, non è condivisibile e misura la distanza, spesso esistente, tra Agenzia e contribuente, o meglio, il mondo reale.
Infatti, non si riesce proprio a cogliere quale tutela erariale debba essere salvaguardata in un caso dove fatti giudiziari hanno acclarato la sussistenza di irregolarità nel rapporto di fornitura e quindi la mancanza del fine elusivo alla base della disciplina del limite annuale, né si comprende perché debba essere penalizzata (anziché favorita) la scelta delle parti di estinguere un giudizio con transazione, piuttosto che attendere decenni per la sua chiusura.
Questa rigidissima interpretazione normativa, quindi, nega l’assunto della clamorosa cronica lentezza del processo civile coi correlativi costi, confonde l’intento elusivo con il bisogno di certezza e di economicità nei rapporti economici privati e finisce col condurre alla rinuncia, per stanchezza, ad un legittimo diritto.