Obesità, globalizzazione e Street food/2° parte

Viaggio nel tempo e nello spazio alla scoperta di abitudini gastronomiche

 

Abbiamo sottolineato che l’abitudine di vendere per strada gli alimenti cucinati è passata dalla Grecia conquistata (II sec a.C.) al mondo romano, arricchendosi e trasformandosi in innumerevoli varianti. Si possono ancora osservare, negli scavi di Ercolano e Pompei, i resti ben conservati di tipici negozi in cui il cibo preparato (zuppe, carni, pesci, frutta secca, ecc.) veniva venduto e consumato: i thermopolia o popinae e le cauponae queste ultime associate a volte ad hospitia e stabula destinati ad ospitare i viaggiatori e i loro animali. 

A Pompei, secondo recenti studi ve ne erano almeno 90 e occupavano una superficie pari al 4% dell’area finora messa in luce. Queste osterie/trattorie erano riconoscibili per il loro aspetto tipico: un grande varco d’ingresso, protetto di notte da una griglia, permetteva un comodo accesso ad un bancone che conteneva murati dei dolia (vasi) in cui erano conservati i cibi. Su un lato del bancone vi era un espositore a gradini su cui si mostravano altri vasi con i diversi cibi e un fornello per riscaldarli prima di servirli. La presenza di un altare, per lo più dipinto, con i Lari associati a Mercurio o a Fortuna rassicurava il cliente sulla protezione degli dei e l’onestà dell’oste. Vi erano poi alcuni annessi: una piccola cella vinaria di doli interrati, spesso una cucina e una o più stanze (cellae meritriciae) per incontri sessuali con donne o uomini. Non mancavano i dadi per il gioco, spesso truccati.

All’epoca le classi urbane meno abbienti vivevano in abitazioni, condomini a tutti gli effetti, per la maggior parte sprovviste di cucina. Il popolino si nutriva per strada, rifornendosi dal più vicino thermopolium che proponeva vivande alla portata di tutte le tasche. Il cibo da strada ha accompagnato l’evoluzione della nostra civiltà, con discrezione, senza lasciare grandi tracce nei libri di cucina visto il suo stretto rapporto con la plebe. Eppure nel medioevo sono innumerevoli, nelle grandi città, i banchi, banchetti e carretti che vendono a poco prezzo cibo cotto e cucinato per le vie dei bassifondi. Come spesso accade, è proprio nella povertà che l’ingegno umano dà il meglio di sé e produce le immortali basi di una intera cultura gastronomica. Facendo un salto di molti secoli le moderne termopholia erano le bettole e i bettoloni. Terni, alla fine dell’800, contava poco più di 14.000 abitanti e ben 330 licenze da osteria. Quando parliamo di bettoloni, parliamo di grandi e capienti spazi in cui le botti troneggiavano su appositi palchi; appena si entrava si percepiva l’odore del vino e del legno che dava un senso di benessere tiepido come la luce lontana del camino che si riverberava sulla parete di fondo.

A differenza delle Stuben austriache o dei Pub inglesi o delle Caves francesi, lu bettolone era prima di tutto un luogo grande che incuteva lo stesso rispetto del palazzo che lo includeva e del proprietario dello stabile, spesso membro importante di una borghesia imprenditoriale agricola. Nel camino acceso c’era sempre uno spiedo che girava e sulla brace le spuntature, cioè i pezzi terminali delle braciole, che non vanno condite e si buttano là come sono, già sapide per via del processo di salagione necessario alla conservazione.

Lo spirito e la cultura di questi locali sono sapientemente descritti in un bel libro di Saverio Minozzi dal titolo Vino e donne dal 1913 che racconta la storia di una città industriale e della sua ultima osteria.