Per Gianluca Sgueo, Global Media Seminar Professor, New York University Florence: «La lacuna legislativa si riflette sul ruolo che nel dibattito pubblico si attribuisce a chi è portatore di interesse, sull’immagine che l’opinione pubblica ha e si “fa” del lobbista»
Professor Sgueo, nonostante un profondo vuoto normativo, è possibile ad oggi nel nostro Paese ricostruire con certezza la fisionomia del lobbista e chiarire in quali attività è impegnato?
Il vuoto normativo esiste ma solo a livello nazionale in quanto manca una legge ordinaria che disciplini organicamente la materia che, difatti, viene interpretata in modo frammentato e differente tanto da alcune amministrazioni, quanto da Autorità indipendenti. Regolamenti ad hoc, come quello invece di cui recentemente si è dotata l’Anac, disciplinando le relazioni fra i decisori e i portatori di interessi, garantiscono la trasparenza di qualsivoglia contatto o incontro teso a chiarire gli interessi in gioco di parte, in merito a particolari attività o procedimenti in atto.
Nel concreto, la mancanza di una legge univoca non incide sull’attività professionale del lobbista. Non è che questi si muove in uno stato di illegalità perché non c’è una norma di riferimento. Semmai l’impatto negativo della lacuna legislativa si riflette sul ruolo che nel dibattito pubblico si attribuisce a chi è portatore di interesse, sull’immagine che l’opinione pubblica ha e si “fa” del lobbista. Chi, come free lance o al servizio di un’azienda, identifica le strategie più corrette per far emergere interessi di parte, non lavora nell’ombra, come spesso si tende a sottolineare in maniera ambigua. Questa è la connotazione che dà chi vuole alimentare disinformazione, chi per “ignoranza” ritiene che il lobbista necessariamente svolga un lavoro ai margini della legalità. L’effetto più grave pertanto è nella percezione comune errata, densa di pregiudizi e grossolana.
Nel nostro Paese, in tema di lobby, infatti il quadro normativo è molto disomogeneo. La Camera, ad esempio, possiede un registro pubblico dei lobbisti, che ne norma l’accesso alle stanze di Montecitorio, mentre il Senato ne è privo. Se invece finalmente si arrivasse a una legge armonica ed efficace sulla rappresentanza di interessi nel suo complesso, quali ne sarebbero i punti fondamentali?
Qui a Bruxelles una legge sulle lobby esiste e, in virtù di questa, gli incontri tra chi decide e chi rappresenta gli interessi di parte sono tracciabili per cui la trasparenza è massima. Ma come la si ottiene? Innanzitutto istituendo un registro, a seconda dei casi obbligatorio come in America o facoltativo come in Europa, presso cui iscriversi in qualità di lobbista. Al registro si aggiungono poi criteri minimi di accesso alla professione, vincolata al rispetto di norme deontologiche.
Ad oggi in Europa, chi sceglie di iscriversi all’elenco è avvantaggiato negli accessi e nelle notifiche di eventi. Dunque, un registro obbligatorio contenente delle prescrizioni esatte sarebbe senz’altro l’elemento indispensabile per una buona legge univoca, cui dovrebbero sommarsi di sicuro norme sanzionatorie per chi non si allinea al dettato legislativo e precise indicazioni per evitare il fenomeno cosiddetto “revolving doors”.
Ma perché in Italia non si è riuscito ancora a regolamentare le lobby? Eppure ne beneficerebbe il sistema politico, o no?
Il consiglio dei Ministri, con all’epoca presidente del Consiglio Enrico Letta, arrivò a una proposta sul tema, che venne però bocciata per mancato accordo tra i politici. Da allora è tutto fermo e se vogliamo individuare una parte responsabile, di certo va cercata nelle fila di parte della rappresentanza politica.
Ipotizziamo che “domani” una lobby abbia una proposta in materia ambientale da sottoporre ai decisori pubblici: cosa succede concretamente? Viene presa in considerazione?
Cominciamo con il dire che non fanno lobbying solo le aziende, ma anche la società civile ha messo in campo nel tempo azioni molto forti capaci di influenzare e condizionare decisioni di pubblica utilità. Questa seconda forma di lobbying è detta indiretta. Si possono fare pressioni sulle istituzioni infatti in due modi fondamentali: il primo è incontrando direttamente i membri del legislativo, dell’esecutivo o delle autorità indipendenti, spiegando le ragioni per cui quelle istanze di cui ci si fa portavoce devono essere approvate. Confindustria, ad esempio, fa così.
Oppure si possono esercitare pressioni sui decisori pubblici mediante un coinvolgimento globale dei media, facendo in modo che chi deve assumere la decisone ne tenga conto, diventando più sensibile al tema sollevato per questioni di consenso.
Revolving doors: cosa ne pensa? Vietare questo costume non solo italiano potrebbe incidere in positivo sul contrasto della corruzione?
A mio avviso è corretto prevedere un periodo di “raffreddamento” – cooling off, in inglese – prima che ex amministratori pubblici, componenti degli organi di vertice o dirigenti apicali di enti – assumano incarichi nel privato.
Il “cooling off” è infatti il principio secondo cui è necessario trascorra un periodo di tempo di due anni dalla cessazione del precedente impiego. La norma è stata pensata per arginare la possibilità che informazioni, dati, relazioni o contatti sviluppati nell’incarico precedente, utilizzati in modo inappropriato, creino posizioni di vantaggio al privato, evitando così effetti distorsivi sul mercato. È un approccio giusto ma a ben vedere il peso dato al fenomeno è sovradimensionato, in quanto è una norma facilmente aggirabile. Non è detto infatti che ci si debba legare all’ex amministratore con un contratto. Basta richiedergli una consulenza.