Particolarmente significativo per le ricadute future, è il recente provvedimento del Garante Privacy n. 153 del 24 luglio 2019, il quale ha affermato che il diritto all’oblio va riconosciuto anche a chi è stato riabilitato dopo una condanna
Il dibattito più intenso attualmente in tema di diritto all’oblio ha ad oggetto il difficile bilanciamento tra quest’ultimo, inteso nel suo significato più ampio quale diritto del singolo di “essere dimenticato dal web” rispetto a vicende non più attuali e che compromettono in qualche modo il proprio percorso personale e professionale, da un lato, e la libertà di stampa e il diritto alla conservazione di materiale giornalistico per fini storici, dall’altro. Entrambi sono valori tutelati da “fonti di rango costituzionale”. Il primo è garantito dall’art. 2 della Costituzione, nonché dall’art. 8 della CEDU e recentemente riconosciuto espressamente dall’art. 17 del Regolamento Europeo sulla protezione dati personali n. 679/16 (cd. GDPR), il secondo trova protezione nell’art. 21 della Costituzione e nell’art. 10 della CEDU.
Nel caso in cui si invochi il diritto all’oblio rispetto a notizie e/o contenuti veritieri, l’interessato non potrà chiederne la cancellazione dai siti sorgente, ma senza dubbio la relativa de-indicizzazione dai motori di ricerca.
Ma quanto tempo deve trascorrere affinché si possa legittimamente esercitare il diritto all’oblio? Come affermato dalla nota sentenza “Google Spain” del 2014, che ha riconosciuto, di fatto, il diritto all’oblio, in generale, e come ribadito nei successivi provvedimenti dell’Autorità Garante della Privacy, la richiesta di oblio è legittima allorché trattasi di notizie e/o comunque contenuti risalenti nel tempo, perché solo in questo caso il diritto all’informazione può ritenersi non più attuale.
Diventa, allora, cruciale quantificare questo tempo.
Il primo Tribunale che si è pronunciato in merito è stato quello di Milano che, in una recentissima sentenza, ha stabilito che il decorso di quattro anni dalla chiusura di un’inchiesta giudiziaria possa legittimare l’esercizio del diritto all’oblio (Tribunale di Milano, sentenza n. 3578 del 28.3.2018). Trattasi di un apprezzabile sforzo, ma è evidente che dare un rigido sbarramento temporale finisce per complicare l’attività di bilanciamento. Del resto, ci sono ulteriori elementi da valutare: l’eventuale permanere della natura pubblica della carica ricoperta dall’istante, la sua qualità di personaggio pubblico, la tipologia e gravità del reato per cui si è stati condannati. Sul punto, infatti, è doveroso chiarire che l’oblio può e deve coprire, sussistendone i presupposti, non solo vicende che hanno registrato un epilogo positivo per l’interessato (ad esempio un’archiviazione, un’assoluzione o anche solo la rimessione in libertà), ma anche vicende che hanno avuto una conclusione infausta, quale la condanna e la detenzione, e ciò per una ragione molto ovvia: non si può perennemente essere sottoposti al giudizio dell’opinione pubblica per vicende obsolete per le quali il soggetto ha scontato il giusto fio con la società. In casi simili, si potrebbe parlare di “ergastolo digitale”.
Sul tema, molto significativo per le ricadute future, è il recente provvedimento del Garante Privacy n. 153 del 24 luglio 2019, il quale ha affermato che il diritto all’oblio va riconosciuto anche a chi è stato riabilitato dopo una condanna e per l’effetto ha ordinato a Google la rimozione di due Url che rimandavano ad informazioni giudiziarie non più rappresentative della attuale situazione di un imprenditore. Quest’ultimo aveva subito una sentenza di condanna nel 2010, per fatti del 2007, e nel 2013 aveva ottenuto la riabilitazione, della quale non veniva fatta menzione nei risultati indicizzati a lui associati. Di qui l’impatto sproporzionato sui diritti dell’interessato, non bilanciato da un attuale interesse del pubblico a conoscere la vicenda, e quindi la fondatezza del reclamo.
Vero è che non tutti coloro che hanno commesso reati o comunque atti illeciti possono essere “dimenticati” dalla Rete, per il semplice decorso del tempo, ma se ricorrono i presupposti richiesti dalla legge o comunque elaborati dalla giurisprudenza in senso maggioritario, questo diritto deve essere garantito. Il Garante della Privacy ha, infatti, stabilito che per reati particolarmente gravi prevale l’interesse del pubblico ad accedere alle notizie, e pertanto in casi simili la richiesta di rimozione delle URL indicizzate da Google, è inammissibile. Tale principio è stato sancito nel provvedimento n. 152 del 31 marzo 2016 con il quale il Garante ha dichiarato infondato il ricorso di un ex terrorista che chiedeva la deindicizzazione di alcuni articoli, studi, atti processuali in cui erano riportati gravi fatti di cronaca che lo avevano visto protagonista tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80.
Sulla tema del difficile bilanciamento tra diritto all’oblio, quale particolare connotazione del diritto alla riservatezza, e diritto di cronaca si sono recentemente pronunciate anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. Sez. Un. Civ., sentenza n. 19681 del 4.6.2019). La questione che è stata rimessa all’esame delle citate Sezioni Unite ha riguardato un cittadino italiano che si era visto rigettare la richiesta di rimozione dai motori di ricerca di un articolo on line pubblicato da un quotidiano locale, il quale ripercorrendo vicende criminali del passato, nel menzionare anche quella che lo aveva visto protagonista, ma per la quale egli aveva già scontato una pena detentiva di 12 anni, lo aveva nuovamente esposto a clamore mediatico proprio nella fase delicata e difficile del proprio reinserimento nella vita sociale. Le Sezioni Unite hanno precisato che, nel caso in questione, deve più correttamente parlarsi non tanto di diritto di cronaca, ma di diritto alla rievocazione storica di fatti e vicende concernenti eventi del passato. A risoluzione di tale questione, è stato affermato che il giudice di merito – ferma restando la libertà della scelta editoriale in ordine a detta rievocazione, che è espressione della libertà di stampa – ha il compito di valutare l’interesse pubblico, concreto e attuale alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono, loro malgrado, protagonisti. Tale menzione deve ritenersi lecita solo se si riferisce a persone nei confronti delle quali sussista l’interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà sia per il ruolo pubblico rivestito; in caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza, a suo tempo legittimamente “compressa”, rispetto ad avvenimenti del passato che ne ledano la dignità e l’onore e dei quali può ritenersi ormai spenta la memoria collettiva.