Omaggio a Carmelo Bene, maestro della “sovrapposizione”

Ovunque vada, la “macchina attoriale” chiamata Carmelo Bene mostra sempre una “consapevolezza” degli strumenti che scorrerà parallela al suo “stare in scena”: cinema, radio, televisione, spettacoli teatrali, “letture” poetiche per Dante, Leopardi, Campana. Ancora oggi resta un caso unico nella storia della comunicazione creativa

Mai anno (1968) fu più emblematico, tra fratture e rinascite, per Carmelo Bene.
E non mi riferisco al tempo della contestazione nella società ma a quel 1968 in cui Carmelo Bene mette in scena (complice Leo de Berardinis) uno straordinario e unico Don Chisciotte. Opus scenica che, come dire, diviene “soglia” oltre la quale davvero sarà difficile per i due maestri dell’italica avanguardia continuare a “fare teatro”, per questo Leo sposterà il suo abitare la scena alla volta di Marigliano dove andrà a scomporre il teatro verso una pratica “crudele” e senza mediazione mentre Carmelo virerà verso una vertigine cinematografica. Infatti tra il 1968 e il 1973 l’autore-attore-scrittore-regista salentino firma 5 lungometraggi, che “sfasciano il presepe italiano”: “Nostra signora dei Turchi”, “Capricci”, “Don Giovanni”, “Salomè” e “Un Amleto di meno”, oltre a tre potenti mediometraggi: “A proposito di Arden of Feversham”, “Hermitage”, “Ventriloquio”. Opere totali che ancora oggi sono un’indiscussa perla d’originalità e una vorticosa sfida al senso dell’immagine in movimento. Un cinema che avrà differenti adesioni e rifiuti. Film dove l’estetica barocca e il catastrofismo saranno alternati: ora come giudizi positivi, ora come categoria del negativo. Insomma un cinema totalizzate e niccianamente “inattuale”.

Tutto ha inizio con le convulsioni di “Nostra signora dei Turchi” (1968) della cui origine letteraria (il film è prima ancora un romanzo autobiografico del 1966) resta ben poco divenendo un’esplosione del visivo. Un circumnavigare l’immagine nelle sue ridondanti derive e approdi. Il discorso sul disfacimento del filmico, Carmelo Bene lo continuerà con i successivi lavori che oltrepassando la dinamica del teatrale guardano con innovativa passione al pittorico (pop art, optical, neobarocco, kitsch, manierismo…), riecheggiano di esplosive sonorità (il melodramma, il classico, la musica leggera). E poi citazioni, rimandi, nuove traiettorie, scompaginamenti e un’infinita miriade di “schiaffi al gusto del pubblico”.

Un cinema che sopravanza se stesso e che nel nutrirsi di “sensibilità pellicolare” (citando Jean Vigo) ha un solo obiettivo: l’autodistruzione. Infatti dopo quest’arco di anni, Bene non farà più cinema, ma il cinema tornerà irriverente nel suo teatro a-venire. Un teatro che comincia a guardare alla concezione del montaggio, alle scritture di luce e alle sempre più necessarie amplificazioni magicamente tecnologiche della phoné. Succedanei all’esperienza cinematografica, altri media di massa: la radio (a partire dalla ricchezza manganelliana delle “Interviste impossibili” del 1973 fino a giungere al 2000 di “In-vulnerabilità d’Achille” dove riscrive su un unico nastro espressivo Stazio, Omero e Kleist) e la televisione (dal 1974 con l’omaggio alla poesia russa di “Bene! Quattro modi di morire in versi”, al 2002 del “Lorenzaccio”. Senza dimenticare la sua presenza nelle ospitate televisive, alle volte volutamente “clownesche” ma sempre magistralmente provocatorie. Ovunque vada, Carmelo Bene mostra sempre una “consapevolezza” degli strumenti che scorrerà parallela al suo “stare in scena”: cinema, radio, televisione, spettacoli teatrali, “letture” poetiche per Dante, Leopardi, Campana. Carmelo Bene resta ancor oggi (il 2002 è l’anno dalla sua scomparsa) un caso unico nella storia della comunicazione creativa. Un Maestro della “sovrapposizione” e costruttore di “un nuovo divenire della coscienza” come dirà di lui un assoluto magister della filosofia contemporanea di nome Gilles Deleuze.