La sintesi e la totalità delle arti, l’indistinzione della matrice linguistica, l’ibridizzazione dei generi, trovano nel programma beckettiano un comune punto d’ancoraggio e di sincronismo
Una consapevolezza estrema ha sempre animato Samuel Beckett. Una consapevolezza che leggiamo, perfetta e radicale, anche nell’uso complessivo dei media, prima dentro il suo teatro e poi con la pratica diretta della radio, della televisione e del cinema.
Una pratica e una consapevolezza della dimensione mediale, della sua totale e totalizzante produzione artistica. Beckett nel suo attraversamento del Novecento ha assorbito tutto: tecniche, linguaggi, strutture, percorsi del pensiero, onde emozionali. Sono pochi gli autori del Novecento che hanno avuto il privilegio di seguire lo sviluppo delle innovazioni tecnologiche e di incrinare la loro attenzione – se non proprio il loro operare – su tali mutamenti.
E sono davvero pochi quanti possono vantare un interesse mediale e una sperimentazione totale pari a quelle che hanno contrassegnato la vita e l’opera di Samuel Beckett. Interesse e sperimentazione che marchiano e si centralizzano attorno a un reale e irreparabile punto di rottura nei confronti della più diretta avanguardia letteraria. Il romanzo modernista, con i cui autori, Joyce in particolare, Beckett era in forte sintonia, aveva dichiarato l’impossibilità di riconoscere il mondo come un tutto unitario e comprensibile. Di fronte all’inconoscibilità – se non per frammenti- della realtà contemporanea, i limiti spaziali e temporali della forma teatrale per Beckett si trasformavano paradossalmente in idea di libertà. Il teatro, almeno per lui, offre infatti all’autore la possibilità di esprimersi senza le restrizioni dettate dalle “cose” (dalla realtà esterna all’io che crea), di diventare un mondo di cui è signore assoluto. Beckett trova nel codice teatrale, nel suo innesto con le tecnologie, lo strumento col quale poter oltrepassare lo steccato della frammentarietà per parlare non a una piccola quantità di individui ma all’umanità tutta. È importante sottolineare che Beckett si trasferì a Parigi nel 1938, proprio quando, nel periodo post-surrealista, vari personaggi con i quali entrò in rapporto (tra cui Bataille, Breton, Jarry) andavano a ripensare i vari movimenti avanguardisti.
Inoltre, l’operazione beckettiana di contaminazione mediale ha un primo cominciamento con la produzione dei romanzi e dei racconti (maturati su indicazione del suo Maestro James Joyce e successivi ai suoi lavori saggistici su Dante e Proust). Continua con il teatro, attraversa la produzione radiofonica e giunge alla televisione e al cinema.
Seguendo questa lineare di ricerca e contaminazione: poesia, letteratura, teatro, radio, cinema e televisione in Beckett si uniscono (e alle volte si confondono) in un programma di narrazioni differenti nelle quali i diversi generi letterari e mediali cessano di avere importanza (e di poter essere “distinti”), fino a una estrema visione della componente mediale necessariamente dentro la pratica scenica. La sintesi e la totalità delle arti, l’indistinzione della matrice linguistica, l’ibridizzazione dei generi, trovano dunque un comune punto d’ancoraggio e di sincronismo nel programma beckettiano. Infatti per Beckett l’alleanza delle arti e l’utilizzo del materiale multimediale è centrale e va a tracciare costantemente la linea di costruzione della sua poetica. Una sorta di programmazione sovramediale atta a disegnare, dispiegare e sintetizzare il reale lavoro effettuato da Beckett.
Tutto questo sia ben chiaro in tempi “non sospetti”. Quando, appunto, “cultura di massa” era voce del negativo (ancora era lontano un Umberto Eco ad aprirci la mente sul valore dei consumi e delle forme estetiche popolari). Insomma Samuel Beckett è il primo verso scrittore che comprende il valore della comunicazione radiofonica e televisiva. Ma per comprendere, fino in fondo, il denso progetto e processo creativo (e produttivo) beckettiano bisogna sporgersi verso gli anni Trenta del Novecento, verso gli anni della giovinezza beckettiana. Tutto nasce nella sua intensa gioventù degli anni Trenta (vissuta tra Dublino e Parigi).
In una dimensione quasi benjaminiana di attraversamento vitale della città, in particolare Dublino. È lì che ha incominciamento la storia d’amore tra le immagini in movimento e gli strumenti della comunicazione (radio, magnetofoni, utilizzo delle luci, microfonazione…).
Nello spazio metropolitano avviene un’attrazione costante verso lo svelamento dei linguaggi e delle strumentazioni tecniche, che accompagnano Beckett nell’arco di tutta la sua lunga e intensa vita d’artista. Vita che s’interrompe a seguito di una caduta il 22 dicembre 1989. Ma in perfetto stile beckettiano la notizia della morte del drammaturgo irlandese giungerà tardi. Infatti, la sua scomparsa sarà diffusa soltanto dopo quattro giorni a sepoltura avvenuta nel mitico parigino cimitero di Montparnasse (dove in un immaginifico post-reale stile “A livella” incontrerà Baudelaire, Ionesco, Brancusi, Cortazar, Duras, Sontag, Gainsbourg…).