Padovani, Svimez: «Contro il declino, occorre una strategia di sviluppo a lungo termine»

Serve un riposizionamento competitivo del sistema produttivo nazionale nell’ambito di un progetto che incroci gli interessi del Mezzogiorno con quelli dell’Italia, il cui filo rosso deve essere una politica industriale attiva

RICCARDO PADOVANIDirettore Padovani, il Rapporto Svimez 2013 evidenzia quanto il Sud sia arretrato ancora rispetto al resto del Paese e non solo: lo scorso anno la Campania era la regione più povera d’Italia, con un reddito pro capite di appena il 64% del livello nazionale e un divario di sviluppo tra Nord e Sud del Paese drammaticamente riaperto e vicino ai 40 punti. Oggi qual è la situazione?
Non vi sono sostanziali mutamenti, anzi il divario strutturale tra Centro-Nord e Sud tende ad aumentare. Prevediamo che il Mezzogiorno, anche nel 2013, subirà una contrazione del PIL più marcata, del -2,5% contro il calo del -1,6% nel Centro-Nord: ciò, per parte non trascurabile, è dovuto all’effetto aggregato delle manovre correttive.

La Campania quest’anno andrà peggio della media meridionale: -2,9%. Il 2012 è stato il quinto anno consecutivo in cui il tasso di crescita del PIL meridionale è stato negativo: il prodotto dell’area si è ridotto nel quinquennio del 10,1%, quasi il doppio della flessione del Centro–Nord. Tale peggior andamento è dovuto, oltre che allo stimolo inferiore offerto dalle esportazioni a causa del notevolmente minore grado di apertura internazionale dell’economia dell’area, soprattutto ad una più sfavorevole dinamica della domanda interna, sia per i consumi, in netta flessione, sia per il crollo degli investimenti pubblici. La Campania sta pagando particolarmente cara la crisi, nel quinquennio 2008–2012 ha perso il 10,8% del PIL, più della media meridionale e quasi il doppio del Centro–Nord, a causa del peggior andamento dell’industria in senso stretto, delle costruzioni e dei servizi.

La vittima silenziosa della crisi e degli errori commessi dalle classi dirigenti politiche nazionali e regionali sono le giovani generazioni. I livelli di occupazione del Sud sono tornati oggi come quelli di 35 anni fa. Come è stato possibile e in che modo si recupera un danno così grave?
L’Italia ha vissuto cinque anni di crisi, che hanno accentuato gli squilibri strutturali del mercato del lavoro. La lunga fase di declino e poi di crisi ci ha restituito un Mezzogiorno in cui si sono ulteriormente ridotte le opportunità di realizzazione individuale delle giovani generazioni, colpendo soprattutto coloro che si sono diplomati e laureati, i quali nel Sud hanno tassi di occupazione, rispettivamente del 31,3% e del 48,7%, decisamente più bassi rispetto a quelli del resto del Paese. Tra il 2001 e il 2012 il saldo migratorio netto verso il Centro–Nord è stato pari a 647mila meridionali, il 70% dei quali, 453mila, giovani, e più di un terzo, 162mila, laureati. Di fronte a quest’emergenza economica, che si intreccia con un’emergenza civile e sociale, la SVIMEZ ritiene che la soluzione sia tornare subito a crescere, a partire proprio dal Sud. Ciò che serve è un riposizionamento competitivo del sistema produttivo nazionale nell’ambito di un progetto che incroci gli interessi del Mezzogiorno con quelli dell’Italia, il cui filo rosso deve essere una politica industriale attiva. 

Emerge inesorabile il crollo dell’industria, al Sud a serio “rischio di estinzione”. La Svimez sottolinea da anni quanto un disegno di politica industriale al Sud sia il grande assente.
É dalla fine degli anni ’90 che la SVIMEZ sottolinea l’ indispensabilità di una politica industriale in grado di arrestare il declino – in particolare dopo che, con l’ingresso nell’euro, è venuta meno anche la leva del cambio come principale strumento di competitività – e di affrontare le difficoltà del nostro sistema produttivo ad adattarsi ai grandi cambiamenti intervenuti negli ultimi due decenni.

 

La prolungata recessione ha successivamente acuito i problemi strutturali dell’apparato produttivo italiano, perché gli effetti della crisi, che hanno indebolito il sistema industriale nazionale, si sono rivelati fortemente asimmetrici, colpendo più intensamente il Mezzogiorno. L’ampiezza della caduta dell’attività di accumulazione al Sud dimostra che nel corso della crisi sono stati fatti investimenti insufficienti anche solamente a compensare il deprezzamento fisico del capitale, determinando una consistente erosione dello stock di capitale netto del settore manifatturiero, ridottosi in Italia del 4% in termini nominali tra il 2009 e il 2012 e al Sud presumibilmente ben di più. La riduzione della base industriale del Mezzogiorno è stata di entità tale da rendere sempre più concreto il rischio dell’innesco di processi di “desertificazione”.

 

Dal 2007 al 2012 il settore manifatturiero meridionale ha ridotto di un quarto il proprio prodotto (-25%), di poco meno gli addetti (-24%), e ha quasi dimezzato gli investimenti (-45%). La contrazione non è stata così profonda nel Centro-Nord, dove il calo di produzione e di occupazione è stato di circa 10 punti inferiore e quello degli investimenti meno accentuato di oltre 20 punti. La debolezza dell’industria del Sud risente della maggiore fragilità strutturale delle imprese, dovuta a una amplificazione dei problemi strutturali dell’industria italiana, in particolare, sul fronte delle tecnologie e della capacità innovativa, che, insieme al grado di internazionalizzazione, costituisce uno dei due indicatori principali della capacità di competere con successo sui mercati.

 

Per contribuire alla ripresa della crescita economica, serve un’azione che riproponga la centralità dell’industria manifatturiera, vero architrave del sistema economico, a partire proprio dal Mezzogiorno: una politica mirata a contrastare la deindustrializzazione e a mettere in campo “interventi attivi” volti a favorire una ristrutturazione del sistema produttivo italiano e meridionale.

Nel Mezzogiorno, spesso, il problema non è stato la mancanza di risorse ma la loro cattiva gestione. La costituzione dell’Agenzia per la Coesione potrebbe avere risvolti positivi? Cosa non bisogna sbagliare nel ciclo di programmazione 2014-2020?
Debbo premettere che c’è stato e ancora c’è un problema di inadeguatezza delle risorse, se si pensa che la spesa pubblica complessiva in conto capitale della PA al Sud è calata dal 40,3% nel 2001 al 35,9% nel 2012 e che quella straordinaria, invece di essere aggiuntiva, è stata sostitutiva di quella ordinaria.

 

Per quel che riguarda la gestione delle risorse, riteniamo che l’ “Agenzia per la Coesione Territoriale” presso la Presidenza del Consiglio possa imprimere una svolta al nuovo ciclo 2014-2020; sia ricomponendo politiche, piani e attori in una cornice unitaria e mettendo un argine alla sempre lamentata debolezza progettuale, alla complessità procedurale e alle difficoltà realizzative; sia riportando correttamente allo Stato la responsabilità di coordinare la politica di coesione con le politiche nazionali, di cui essa deve essere parte integrante, per superare la logica ghettizzante che finora ha delegato la responsabilità della politica di coesione esclusivamente alle Regioni, stralciando di fatto il Mezzogiorno dall’agenda nazionale.

 

L’Agenzia rappresenta una decisiva opportunità ed è davvero l’ultima spiaggia per dare senso alla prossima agenda dei Fondi strutturali, recuperando una visione di sistema, una strategia di sviluppo di respiro nazionale da declinare sui territori.

 

Quanto al ciclo di programmazione 2014-2020, di fronte ai rischi di ampliamento dei contenuti della politica di coesione che tendono a manifestarsi in sede europea, occorre un disegno chiaro delle scelte, anche dal punto di vista finanziario, che eviti frammentazioni e proliferazioni di interventi e identifichi poche direttrici significative – riqualificazione urbana, energia ed efficienza energetica, sviluppo delle aree interne, infrastrutture e logistica – e specifici progetti fondati sulle potenzialità dei territori in collegamento con le politiche ordinarie e i programmi di investimento nazionali. 

La Svimez però non si ferma alla denuncia, ma indica una precisa strada per far ripartire il Mezzogiorno. Quali le tappe fondamentali per avviare la risalita?
Abbiamo individuato alcuni drivers – città e rigenerazione urbana, energia, infrastrutture, logistica – attorno ai quali costruire una strategia per tornare a crescere, in grado di coniugare un’azione di breve periodo in funzione anti ciclica con una politica di sviluppo di medio-lungo periodo. Prendendo le mosse dalla rigenerazione urbana, un ambito che si presta efficacemente all’avvio di un piano di primo intervento e che può svolgere un prezioso ruolo iniziale di traino degli altri drivers. Riteniamo insomma che, per arrestare il declino, non basti perseguire la logica del mercato e dell’austerità, ma serva una strategia di sviluppo, nell’ambito della quale il Mezzogiorno resta la grande opportunità da cogliere, il cui filo conduttore sia una logica “di sistema”, che richiede investimenti strategici anche a redditività differita e una progettazione a lungo termine.