L’economia italiana sta accelerando ma ci vorranno anni per tornare ai livelli del 2007. Per il direttore del Centro Studi di Confindustria bisognerebbe, come la Spagna, fare le riforme il prima possibile, mettendo al centro l’impresa e il mercato e creando le condizioni per facilitare il credito.
Direttore, le previsioni del Centro Studi Confindustria di settembre tratteggiano una ripresa – seppur ancora cauta – per l’economia italiana. Recessione archiviata?
Per definizione, dopo due trimestri consecutivi di aumento del PIL la recessione è ufficialmente finita. E di trimestri con segno <+> ne sono stati infilati tre, tra il quarto 2014 (variazione quasi impercettibile) e il secondo 2015. Il CSC prevede che la serie positiva prosegua almeno fino alla fine del 2016, con un incremento medio annuo dell’1,0% quest’anno e dell’1,5% il prossimo. Il termine ripresa, però, non è appropriato né tecnicamente, né politicamente. Tecnicamente perché è la fase breve, al massimo un anno e mezzo, durante la quale si “riprende” appunto quanto perduto nella recessione; ma nel caso attuale ci vorranno anni per tornare ai livelli del 2007. Politicamente perché, proprio a causa della profondità della caduta e della durata del tempo necessario a colmare il gap, le difficoltà di molte imprese e persone saranno a lungo con noi. Ricordiamo, infatti, che ancora nel 2016 il PIL resterà pari al livello del 2000, il PIL per abitante (la misura principe del benessere economico) a quello del 1997 e l’occupazione a quella del 2006. Meglio parlare di ripartenza, di risalita, di recupero, al limite di ricostruzione.
Fattori esogeni hanno spinto le stime al rialzo?
Durante l’estate lo scenario globale è cambiato parecchio rispetto alle nostre precedenti previsioni. I cambiamenti principali riguardano il rallentamento del commercio mondiale, molto più accentuato, e la caduta ulteriore del prezzo del petrolio. La somma è positiva, nel senso che l’impulso che viene all’economia italiana dal risparmio sulla bolletta energetica vale un ulteriore aumento del PIL pari allo 0,2% quest’anno e il prossimo, mentre la frenata globale defalca uno 0,2% nel 2015 e zero nel 2016, quando ci aspettiamo che ci sia un miglioramento. Riguardo a quest’ultimo, il quadro va attentamente monitorato e potrebbe rivelarsi ottimistico. In aggiunta a ciò, sulle stime per quest’anno ha influito la revisione al rialzo dei dati ISTAT relativi alla prima metà del 2015, che aggiunge uno 0,2% al PIL di quest’anno. Ecco perché abbiamo ritoccato all’insù le nostre previsioni. Sono fiducioso che l’economia italiana stia accelerando e penso che il risultato finale del 2015 possa essere addirittura migliore di quello che attualmente indichiamo.
Restando in tema l’economia cinese, dopo un trentennio di crescita, ha avuto una battuta d’arresto. C’è da preoccuparsi?
È assolutamente fisiologico che l’economia cinese rallenti. Perché, quando si raggiungono livelli più elevati di benessere, si esauriscono alcuni spazi di crescita, come l’aumento di produttività dovuto al trasferimento dall’agricoltura all’industria di una consistente parte della popolazione. E perché finora lo sviluppo cinese è stato guidato da export e investimenti e basato sull’industria, mentre ora il testimone deve passare ai consumi e ai servizi, e questo è il tentativo che le autorità cinesi stanno facendo. Dobbiamo tutti fare il tifo che esse ci riescano senza incidenti di percorso, perché una frenata brusca della Cina avrebbe ripercussioni molto forti per l’economia mondiale. La Cina, infatti, determina oltre un terzo dell’aumento annuale del PIL globale. Il CSC ha stimato che una caduta dal 7,3% (quale quello registrato nel 2014) al 4,0% della crescita cinese tagli di 1,1 punti percentuali l’incremento del PIL mondiale e di 0,5 punti quello italiano.
Solo a giugno scorso il Governatore di Bankitalia Visco dichiarava che «fra i Paesi dell’Eurozona dal lato politico il progresso è ancora lontano». Questa arretratezza visibile quanto incide sulle performance economiche del nostro Paese?
Non si possono dare cifre precise, ma è evidente che la disunione politica europea incida sulla stabilità e sulla fiducia, penalizzando i Paesi, che a torto o a ragione, sono percepiti come più fragili sullo scacchiere europeo.
La seconda recessione in cui l’Italia è precipitata tra il 2010 e il 2014 è spiegata dalla difficoltà dell’UE di dotarsi di una politica di bilancio comune e di gestire in modo meno titubante e distruttivo la crisi dei debiti pubblici.
Per le nostre imprese meglio o peggio se la Fed dovesse prima o poi alzare i tassi?
Un rialzo dei tassi da parte della FED è ineluttabile, perché l’economia USA è in salute ed è bene che inizi una graduale normalizzazione della politica monetaria. Ricordo che i livelli attuali dei tassi non hanno precedenti nella storia plurisecolare delle Banche centrali. L’avvio della normalizzazione darebbe certezza ai mercati e rassicurerebbe tutti sulle buone condizioni economiche statunitensi.
Tornando a casa nostra, Pil in crescita quindi e disoccupazione in calo secondo le stime di CSC. In definitiva il mondo delle aziende promuove il Jobs Act?
Assolutamente sì. Lo fa con i fatti, assumendo più persone di quante ne avrebbe altrimenti prese e trasformando a tempo indeterminato una serie di altri tipi di contratti. Oltre che il Jobs Act, importante è stata anche la riduzione dei contributi sociali sui nuovi contratti a tempo indeterminato siglati entro la fine del 2015; un incentivo che andrebbe rinnovato. Abbiamo condotto un’indagine presso le imprese associate a Confindustria e il 62% ha risposto che le norme varate dal Governo hanno influenzato positivamente le loro decisioni sull’occupazione, tanto che il 18% ha deciso di aumentare la manodopera e il 50% ha trasformato i contratti esistenti. Ciò dimostra che quando vengono prese le giuste misure di politica economica, il sistema produttivo reagisce rapidamente e nella direzione attesa.
Resta il nodo di un CLUP troppo alto e di una scarsa redditività. La contrattazione aziendale è l’unica via per risolverli?
La dinamica del costo del lavoro è stata, prima e durante la crisi, totalmente sganciata dalla dinamica della produttività, e quindi dalla ricchezza creata. Questo ha fatto aumentare davvero molto il CLUP, penalizzando la competitività e mandando gambe all’aria i conti aziendali; come testimonia l’erosione della redditività, che nel manifatturiero è scesa ai minimi storici: è il più potente disincentivo a investire nel nostro Paese. Tutto ciò nasce dal sistema di contrattazione collettiva che centralizza a livello nazionale la determinazione degli incrementi delle retribuzioni, cosicché questi ultimi non possono tener conto dei guadagni di produttività che vanno considerati solo là dove si realizzano, cioè a livello aziendale. Ecco perché occorre cambiare il sistema di contrattazione, decentrando a livello di impresa gli incrementi retributivi. La scelta di riformare il sistema di contrattazione spetta alle parti sociali e Confindustria è impegnata con determinazione in tal senso. La defiscalizzazione e la decontribuzione degli aumenti retributivi erogati a livello aziendale in cambio di maggiore produttività sarebbe un potente incentivo anche per i lavoratori e i loro rappresentanti, perché aumenterebbe la busta paga netta.
Altri Paesi però fanno molto meglio dell’Italia, ad esempio la Spagna. Quali riforme è necessario che il governo affronti con urgenza per non perdere – come suggerisce una citazione di Tito Livio in apertura del rapporto CSC – l’occasione attuale che va colta con prontezza per aumentare durevolmente la crescita economica dell’Italia?
La Spagna cresceva più dell’Italia già prima della crisi. Tuttavia, allora lo faceva accumulando un grave squilibrio nei conti con l’estero e gonfiando un’enorme bolla immobiliare. Allo scoppio della crisi questi nodi sono venuti al pettine e c’era chi dava la Spagna per spacciata. Invece, la Spagna nel 2012 ha adottato le giuste misure: semplificazione delle norme, riforma del mercato del lavoro (rendendo più facili i licenziamenti, le ristrutturazioni aziendali e i cambiamenti di mansioni dei lavoratori), moderazione salariale (con lo spostamento della contrattazione a livello aziendale) e risanamento dei bilanci delle banche (grazie ai fondi europei, quindi anche con i soldi nostri). Tutto ciò ha permesso alla Spagna di ripartire prima e più brillantemente dell’Italia, tanto che ora cresce a un ritmo di oltre il 3%, il triplo del nostro.
Insomma, la lezione è che le riforme vanno fatte il prima possibile e agendo contemporaneamente su più fronti, mettendo al centro l’impresa e il mercato e creando le condizioni per facilitare il credito.