Scrittore, regista, poeta ma anche atleta – ala destra – e tifoso di calcio, del suo Bologna: un omaggio insolito e fuori campo a un grande indimenticato del Novecento italiano
Pier Paolo Pasolini a quarant’anni dalla sua scomparsa. Si è scritto tanto sugli ultimi giorni dello scrittore e regista friulano. Il film di Abel Ferrara, ad esempio, indaga nel profondo i giorni che precedono la fine del grande poeta, insistendo sul tessuto biografico, sulla geografia degli incontri, sui dialoghi amicali e materni. Senza tralasciare una continua riflessione verso le sue produzioni rimaste incompiute e datate 1975: il “Teopornokolossal” con Eduardo De Filippo, il romanzo atrocemente “politico” di “Petrolio” e il suo film di lacerante bellezza “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. E proprio dedicato a quest’ultima opera (violenta, “inguardabile”, estrema e al contempo “necessaria”) è stato l’omaggio che molte città hanno voluto proporre il 2 novembre (data nella quale nel 1975 veniva trucidato sul litorale di Ostia Pier Paolo Pasolini).
Rivedere in sala e in condivisione collettiva la pellicola restaurata e integrale di “Salò o le 120 giornate di Sodoma” – grazie alla Cineteca di Bologna e da CSC Cineteca Nazionale, in collaborazione con Alberto Grimaldi – è stato un potente choc che ancora una volta ha ridonato la grandezza di un amato/odiato Pasolini. “Salò” è un potente “tradimento” del lavoro letterario iperbolico e razionalista del Marchese de Sade “tradotto” in parodia, sberleffo e provocatoria allegoria (la Repubblica Sociale è un pretesto per narrare la brutalità assoluta del potere, di ogni potere). L’ultimo film di Pasolini è un continuo assalto all’innocenza dello sguardo dello spettatore. Un film – nato dalle letture di magistrali francesi quali Lacan, Barthes, Blanchot, Deleuze, Klossowki e indirettamente Foucault – è un vero e proprio precipizio che non ammette pietà o redenzione. La depravazione, il sadismo la violenza reiterata, la mortificazione dei corpi sono di un ritmo crescente e sempre più massacrate. La perversione
del potere è un’inquietante prospettiva che Pier Paolo Pasolini lascia ai posteri. Ma c’è un altro capitolo che riguarda la realizzazione di questo film. E che non tocca i canoni estetici o quelli strettamente produttivi o narratologici.
Un capitolo che avvicina il vissuto e il privato emozionale di Pier Paolo Pasolini. Ossia il suo amore per il calcio. Il 16 marzo del 1975 due équipe cinematografiche si sfidano in un’originalissima partita di calcio. Scendono in campo due squadre che nello stesso periodo stanno realizzando due film epocali.
Da un lato “Novecento” (capitano in panchina Bernardo Bertolucci) e, appunto, “Salò o le centoventi giornate di Sodoma” (capitano e giocatore Pier Paolo Pasolini). La squadra di Bertolucci vince. Pasolini, rabbioso, lascia il campo… Una piccola parentesi per ricordare in modo diverso Pier Paolo Pasolini. Ma si badi per lui il calcio non era un aspetto secondario. Anzi, il calcio era atto vitale…sia come atleta (ala destra il cui soprannome era “stukas”) e sia come tifoso (la sua Bologna). Senza dimenticare che Pasolini identificava il calcio come un vero e proprio “linguaggio”. Il calcio come spazio segnico abitato da prosatori e poeti (Mazzola e Rivera, su tutti). Oltre ad essere ultima, straordinaria “rappresentazione sacra del nostro tempo”. A dare forza sostanziale alla nostra riflessione una dichiarazione dello stesso Pasolini. In una lunga intervista sulla “Stampa” rilasciata ad Enzo Biagi alla domanda “Senza cinema, senza scrivere, che cosa le sarebbe piaciuto diventare?” la risposta è chiara e immediata “Un bravo
calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri”.