Omaggio a un artista che fu immediatamente grande. In lui interpretazione, testo e melodia stanno insieme, tra malinconia e innovazione
Primi anni Ottanta. C’è stato un tempo in cui si era punk, post-punk, new-wave, paninaro, melomane, fan dell’elettronica, pop, metallaro, cantautoriale, dj-television dipendente, jazzista, cultore del folk e delle tradizioni del nostro sud, psichedelico, rocker militante…C’è stato un tempo in cui qualcuno camminava con le movenze del Jacksoniano “moon walker” e, qualcun altro, era rigoroso allievo del Conservatorio nutrito a pane & Giuseppe Verdi. C’è stato un tempo in cui ognuno andava per la propria strada.
Ogni tanto queste strade s’incrociavano e nascevano amicizie, amori ed anche belle sintonie di suoni e sperimentazioni. Altre volte queste strade si scontravano ed erano mazzate! Risse furibonde nel nome del dio look e della dea musica. Rocker contro Metallari, Metallari contro Dark e tutti uniti contro i Paninari. Ma in linea di massima nessuno interferiva negli ascolti altri. Fondendo assieme indifferenza e/o disprezzo. Ma questa indifferenza e/o disprezzo, che dir si voglia, per l’altrui stile musicale di fronte a Pino Daniele si placava. Insomma potevi amare ed ascoltare qualsiasi cosa. Ma tutti, davvero tutti, all’ascolto del cantautore napoletano si trovavano compatti nel dire “mi piace”. “Non capisco tutto quello che dice, ma mi piace”.
E siamo decenni prima della retorica dell’attuale cooptazione dei “like” social. Era un “mi piace” vero, diretto, spontaneo. Talmente sentito e trasversale che ai concerti dei primi anni Ottanta di Pino Daniele trovavi una folla talmente variopinta che era un evento nell’evento. Pino Daniele fu immediatamente grande. Già a partire dalla potenza magnetica e indiscutibile di “Terra mia” (siamo nel 1977) dove compaiono brani che ancora oggi sono opere di assoluto valore. Un brano su tutti (“Libertà”) per cogliere la forza di quest’autore che, circondato sempre da straordinari musicisti, ha regalato capitoli di perfetta miscela poetico-musicale.
«Chiove ‘ncoppa a ‘sti palazze scure/ ‘Ncoppa ‘e mure fracete d’a casa mia/ Tutt’attuorno l’aria addora ‘e ‘nfuso/ Chi song’io/ Ce cammine ‘mmiezo ‘a via/ Parlanno ‘e libertà/ Stà durmenno senza tiempo/ ‘Nu ricordo ca nun penzo cchiù/ Ma che succede io sto’ chiagnenno/ Penzanno a ‘o tiempo ca se ne va/ E cammine ‘mmiezo ‘a via/ Parlanno ‘e libertà». Questo brano (ma quasi tutti quelli di “Terra mia”) sono una sintesi perfetta e naturale di una rivoluzionaria riscrittura musicale. La grande melodia del Novecento, la densità della poesia napoletana (da Salvatore di Giacomo a Totò), la ricchezza di un’atmosfera musicale che guarda alle contaminazioni più varie (il blues, la fusion proveniente dalla sua band d’origine Napoli Centrale, gli archi, uno sguardo attento alla canzone d’autore). Interpretazione, testo e musica procedono assieme tra malinconia e innovazione.
Il procedere denso di Pino Daniele continuerà sulla stessa scia di “Terra mia” con “Pino Daniele” (1979); “Nero a metà” (1980); “Vai mo” (1981); “Bella ‘mbriana” (1982); “Musicante” (1984); “Ferryboat” (1985); “Bonne soirée” (1987); “Schizzechea with love” (1988). Poi le scelte degli anni Novanta lo portano verso altri territori. Altre ricerche. Altre collaborazioni. Molti dei suoi fan d’origine non lo seguono più. Ma un nuovo popolo di estimatori si avvicina alla sua melodia. Da qui nasce per molti l’accusa di non essere “quello di un tempo” (come se qualcuno di noi fosse ancora “quel che si era”). La risposta a questo “cambiamento” è lo stesso Pino Daniele a raccontarla nelle interviste. L’obiettivo principale dell’autore napoletano non è più “raccontare storie” ma è sempre di più la melodia. Insomma, la musica prevale sul testo. La melodia, infatti, è proprio ciò che cercava con sempre maggior costanza. Ovvero la capacità di raccontarsi naturalmente al primo suono. In realtà i volti, i tic, le microstorie dei suoi primi album erano già dentro una precisa struttura melodica. Rigorosa ed accattivante, ma senza ipocrisia e senza voler strizzare l’occhiolino a facili ascolti. Sempre nella tensione della ricerca e dello stile. Questioni di melodia. E così, abbandonata la tensione narrativa, il lavoro di Pino Daniele è continuato verso un intreccio di sonorità, sperimentazioni, conferme e scoperte.
Ragionando in tal prospettiva non ci sembra strano il suo incrociare (cito a caso) la fusion di Pat Metheny o la lirica di Luciano Pavarotti, il jazz di Chick Corea e di Wayne Shorter o il rap dei 99 Posse, il rock di Eric Clapton e di Gino Vannelli o il pop di Giorgia, Jovanotti, Noa…Stabilendo con loro un dialogo vero, originario. Un dialogo nel nome della musica. Anche perché non era soltanto scelta del marketing o delle etichette a far nascere questi incontri, ma quasi sempre era un’adesione professionale ed amicale a nascondersi dietro queste collaborazioni.
Altro capitolo denso nella produzione di Pino Daniele sono le realizzazioni delle colonne sonore per i film. Seppur non tantissime sono tutte di grande attenzione ed originalità (dalla “Mazzetta” di Sergio Corbucci a “Opopomoz” di Enzo d’Aló). Ma è soprattutto nel dialogo con il cinema di Massimo Troisi che la musica di Pino Daniele diventa “tutta un’altra storia” e prende le vestigia di quell’incantesimo “necessario” in cui amicizia, produttività e ricerca divengono un’unica forza energetica.
Ma a noi piace ricordarlo nella sua storia della produzione musicale giovanile. Dove per uno strano scherzo che spesso l’arte (quella vera) è solita tirare alla realtà, ti sembra che il confine tra quello che senti-desideri-vivi è dentro un potente cortocircuito. Dove una canzone ti racconta meglio di qualsiasi emozione provata. E cosi ti trovi in una incandescente e porosa Napoli. E vivi come se tutto fosse specchio del mondo: le prime paure, la voglia di rivoluzione, gli innamoramenti felici, il caffè come rituale indomabile, il mare, la nostalgia, la trasgressione, la militanza politica, gli amori “scapezzati”, le lacrime, le feste, lo stadio, la voglia di cantare assieme, le risse, gli amici perduti, lo sballo.
Quando sai che alle volte basta pochissimo per essere felici. Quando sai che alle volte “basta ‘na jurnata ‘e sole/ e quaccheduno ca te vene a piglia’/ pé poté parla”.