La Cassazione ha respinto il ricorso promosso da un istituto di credito affermando che il credito della banca derivante dall’anticipazione era stato soddisfatto con provvista di denaro ottenuta erodendo il patrimonio della società poi fallita
Merita adeguata considerazione la recentissima sentenza della Cassazione n. 8225 del 22 aprile 2015. Nella specie, il Collegio ha respinto il ricorso promosso da un istituto di credito, avverso l’azione revocatoria promossa dal curatore fallimentare, affermando che i versamenti effettuati dal cliente sul conto corrente non possono essere considerati atti di natura ripristinatoria della provvista correlata al fido e, come tali, sono revocabili – ai sensi dell’art. 67, comma 2, del Regio Decreto del 16 marzo 1942, n. 267 (c.d. legge fallimentare).
La vicenda, da cui trae origine l’affermazione del citato principio giudiziale, può essere sintetizzata nei termini che seguono.
Il curatore, nell’ambito di una procedura fallimentare, aveva agito in revocatoria, a mente dell’art. 67, comma 2, della legge fallimentare, nei confronti di una banca, assumendo l’inefficacia relativa del pagamento della somma di 500 milioni delle vecchie lire, attraverso cui una società aveva estinto – nel luglio 1999 – il proprio debito di corrispondente importo nei confronti della banca.
La situazione debitoria de qua era scaturita dalla concessione di un anticipo all’esportazione, ovvero da un’operazione finalizzata a creare disponibilità finanziaria a favore del cliente imprenditore, in relazione ai crediti vantati nei confronti di controparti estere, per aver fornito loro merce o reso servizi. Si trattava, a ben vedere, di un’operazione autoliquidabile, nella misura in cui l’anticipo veniva rimborsato con i fondi rivenienti dall’incasso del credito anticipato. Più specificatamente, al momento dell’erogazione (generalmente contenuta nei limiti dell’80% dell’importo della fattura) l’istituto creditizio ha ottenuto la cessione, ovviamente a favore di se medesimo, del credito vantato dal cliente nei riguardi del debitore estero.
La Banca si costituiva ritualmente, opponendosi alla domanda spiegata, eccependo la funzione ripristinatoria e non solutoria della provvista su conto affidato e chiarendo che si trattava di pagamento di un credito privilegiato, poiché garantito da pegno, come tale non revocabile, a condizione il Curatore non avesse provato che il credito altrimenti non avrebbe trovato capienza.
In primo grado il Tribunale intervenuto rigettava la domanda.
I giudici di secondo grado revocavano il pagamento della somma e condannavano la Banca al pagamento, oltre agli interessi e alle spese. Avverso tale sentenza la banca ricorreva in Cassazione.
A questo punto vanno prese in considerazione le argomentazioni della Corte.
L’istituto di credito, tra i quesiti posti a fondamento del ricorso in Cassazione, chiedeva se fosse ammissibile l’azione revocatoria di rimessa su conto affidato senza alcuna prova, da parte della curatela fallimentare, circa la natura solutoria della rimessa stessa, ancor più effettuata in correlazione al pagamento del prezzo di un contratto tra la società fallita e un terzo, e intervenuta nei limiti dell’affidamento.
Sul punto specifico la Cassazione ha ritenuto l’irrilevanza del quesito, atteso che il fallimento, con l’appello, aveva svolto motivo specifico sull’erronea qualifica del conto anticipo export come conto affidato e la Corte d’appello aveva chiaramente ritenuto trattarsi di finanziamento. La difforme qualificazione giudiziale ha permesso di ascrivere l’operazione tra quelle revocabili, ex art. 67 legge fallimentare, in virtù – tra l’altro – della stessa terminologia adottata dalle parti e, soprattutto, dell’immediato addebito – da parte della Banca – del corrispondente importo nel conto anticipi della impresa decotta.
Con un ulteriore quesito, la banca ricorrente si chiedeva se il debitore avesse il diritto di imputazione di pagamento, ai sensi dell’art. 1193 c.c., e se ciò gli fosse consentito, indipendentemente dalle indicazioni del terzo in relazione ad un contratto, cui la banca creditrice è estranea. Conseguentemente, se fosse legittima la riscossione da parte della banca sul conto anticipo export del corrispettivo di un’anticipazione affidata, intervenuta con contestuale costituzione in pegno delle relative somme, cui si aggiungeva la volontà del debitore di imputare il pagamento alla estinzione di detto specifico rapporto.
Il ragionamento seguito al riguardo dalla Cassazione ha evidenziato che la ricorrente avrebbe voluto ricostruire, in termini diversi, quanto accertato sul piano del fatto dal Giudice del merito. Infatti, la Corte d’appello ha escluso che il pagamento di cui si chiede la revoca fosse oggetto di pegno, rilevando che il credito della Banca derivante dall’anticipazione era stato soddisfatto non con le somme oggetto di pegno, provenienti dal credito verso il cliente estero, ma con il danaro pervenuto dalla ditta fallita, in pagamento della vendita della merce. Si trattava, quindi, di provvista ottenuta erodendo il patrimonio della società poi fallita.
A fronte di detta ricostruzione, incontrovertibile e decisiva, la Corte ha osservato che la ricorrente avrebbe voluto, attraverso modalità inammissibili, offrire la propria diversa interpretazione-qualificazione dei fatti. Da tanto è conseguito che il riferimento alla non revocabilità del pagamento, in quanto collegato a negozio non revocato, è infondato, poiché i pagamenti solutori sono revocabili, ai sensi dell’art. 67 legge fallimentare, anche se non sono revocati i negozi cui essi accedono.
La soluzione giudiziale adottata è ancorata al presupposto del pagamento di debiti liquidi ed esigibili. Infatti, su tale principio, la giurisprudenza ha affermato che, in tema di revocatoria di cui all’art. 67, comma 2, de quo, i pagamenti di debiti, appunto, liquidi ed esigibili devono essere considerati atti giuridici distinti dal rapporto sottostante. Questo costituisce la configurazione causale, quelli – piuttosto – rilevano nella loro obiettiva natura di atti estintivi delle obbligazioni del fallito; pregiudizievoli per la massa dei creditori, e quindi, suscettibili di autonoma iniziativa tesa alla revoca, indipendentemente dalla revocabilità dei negozi cui essi causalmente ineriscono.