È quanto mai urgente riformare totalmente il processo tributario, sottraendo la gestione al Ministero dell’Economia e delle Finanze (che è una delle parti in causa) e rendendo paritaria ed effettiva la difesa del contribuente, senza alcuna limitazione processuale
La responsabilità civile dei magistrati, con la recente riforma, è disciplinata dalla Legge n. 18 del 27 febbraio 2015 (in G.U. n. 52 del 04/03/2015), vigente dal 19/03/2015.
La suddetta legge introduce disposizioni volte a modificare le norme di cui alla precedente Legge n. 117 del 13 aprile 1988, al fine di rendere effettiva la disciplina che regola la responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, anche alla luce dell’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea.
Premesso che, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, non può mai dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove, la responsabilità civile dei magistrati si manifesta nei casi di dolo e di colpa grave.
A tal proposito, per ben comprendere le differenze, è opportuno distinguere la posizione dei giudici ordinari da quella dei cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi giudiziali collegiali, come i giudici laici delle Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali ai sensi del D.Lgs. n. 545 del 31/12/1992.
I magistrati ordinari possono rispondere civilmente nei casi di dolo e di colpa grave nell’esercizio delle proprie funzioni giudiziarie.
Costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge, nonché del diritto dell’Unione Europea, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione (art. 2, comma 3, Legge n. 18 cit.).
Il Presidente del Consiglio dei Ministri, entro due anni dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziario o di titolo stragiudiziale, ha l’obbligo di esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato nel caso di diniego di giustizia, ovvero nei casi in cui la violazione manifesta della legge, nonché del diritto dell’Unione Europea, ovvero il travisamento del fatto o delle prove sono stati determinati da dolo o da negligenza inescusabile (art. 4, comma 1, Legge n. 18 cit.).
I cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali, come i giudici laici tributari, rispondono, invece, soltanto in caso di dolo o negligenza inescusabile per travisamento del fatto o delle prove.
Nell’attuale processo tributario, per tutti i giudici (ordinari e laici), oltre alle ipotesi di dolo, è unica la responsabilità in caso di negligenza inescusabile per travisamento del fatto o delle prove.
Il travisamento dei fatti si può realizzare in due distinte ipotesi, e cioè:
– l’affermazione (determinata da negligenza inescusabile) di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
– la negazione (sempre determinata da negligenza inescusabile) di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento.
La formula è simile al n. 4 dell’art. 395 c.p.c., da cui è tratta; manca, tuttavia, l’espressione <<se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare>>, che c’è nel citato art. 395 c.p.c..
Quest’ultima espressione non risulta nell’attuale nuova formulazione, così come non risultava nella vecchia.
Come conoscenza storica, occorre precisare che quest’ultima parte, che figurava nel primo disegno di legge del Governo nel 1987, fu presentata in Commissione come emendamento (Bollettino Commissioni, Camera n. 84 del 09/12/1987, pag. 12), sottolineandosi la necessità che la pretermissione del fatto, pur risultando dai documenti processuali, per dar luogo a responsabilità civile dovrebbe aver formato oggetto di una specifica evidenziazione dell’atto stesso a cura della parte, sempre che il contraddittorio si fosse costituito e che l’atto fosse conoscibile dalla parte interessata evidenziata.
La Commissione accolse il succitato emendamento, ma l’Aula lo eliminò il 20 dicembre 1987.
Fu riproposto al Senato in una versione un po’ diversa (“sempre che la circostanza sia stata dedotta o rilevata”, emendamento al Senato del 10 febbraio 1988, ma sempre con esito negativo).
In sostanza, sia la vecchia che la nuova formulazione non riportano assolutamente l’espressione <<se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciarsi>>.
Di conseguenza, negli attuali organi giudiziali collegiali, come le Commissioni Tributarie, questa ipotesi può suscitare, nei componenti del collegio diversi dal relatore, il timore di incorrere in responsabilità per negligenza del collega che si sia lasciato sfuggire fatti rilevanti o, viceversa, supponga esistenti fatti esclusi dalla documentazione, donde la necessità che ciascuno possa esaminare l’intero fascicolo di causa e abbia copia di tutti gli atti processuali.
Ciò comporterà una diversa metodologia di lavoro perché le camere di consiglio dovranno necessariamente essere precedute dalla distribuzione della copia di tutto il fascicolo processuale a tutti i componenti del collegio.
Metodologia giusta e auspicabile, ma che la macchina giudiziaria tributaria difficilmente riuscirà a sopportare se non a costo di gravi ritardi nelle pronunce collegiali, fino a quando non si provvederà ad una adeguata ristrutturazione delle Commissioni Tributarie stesse.
In modo analogo, sarà necessaria maggiore cura nella preparazione dei fascicoli processuali, con indice aggiornato e vistato dall’ufficio di segreteria, affinchè non si corra il rischio di escludere o pretermettere documenti esibiti e non fascicolati, così incorrendo in una ipotesi di travisamento dei fatti.
L’altra ipotesi di negligenza inescusabile è quella del travisamento delle prove, che prima non era tassativamente prevista dall’art. 2 della Legge n. 117/1988.
Questa ipotesi si può verificare se una prova viene totalmente ignorata, oppure se si ritiene esistente una prova che invece non risulta assolutamente negli atti processuali.
Questo problema si può porre, in particolare, nell’attuale processo tributario dove i poteri istruttori delle commissioni tributarie sono limitati dall’art. 7 D.Lgs. n. 546/92 e dove non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale.
Questi limiti istruttori possono, secondo me, facilmente indurre i giudici tributari a cadere, non certo per loro incapacità professionale, in ipotesi di travisamento del fatto o delle prove, soprattutto se la parte non può efficacemente difendersi citando, per esempio, dei testimoni che, pur in assenza di prove documentali (le uniche ammesse nel processo tributario attuale) possano dimostrare l’esistenza o l’inesistenza di particolari situazioni, giuridiche o di fatto, aventi rilievo fiscale.
Ultimamente, la Corte di Cassazione, anche in ossequio all’ordinanza della Corte Costituzionale n. 18/2000, ha riconosciuto la possibilità per il contribuente, in un sistema processuale fondato sulla parità delle parti, di introdurre in giudizio eventuali dichiarazioni extraprocessuali del terzo a suo favore, ancorché rilasciate al contribuente stesso o a chi lo assiste (sentenze n. 4423/2003 e n. 4122/2015).
Del resto, i principi del giusto processo come formulati nel nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione garantiscono il principio della parità delle armi processuali, nonché l’effettività del diritto di difesa e, quindi, impongono di riconoscere al contribuente, così come riconosciuto all’Amministrazione finanziaria, il potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, con il valore probatorio proprio degli elementi indiziari che possono concorrere a formare il convincimento del giudice, pur non essendo idonei a costituire da soli il fondamento della decisione (Cassazione, sentenze n. 4269/2002, n. 5957/2003, n. 4122/2015 e n. 5018/2015).
Questo, però, secondo me non è sufficiente a rendere effettiva la parità processuale delle parti nell’attuale processo tributario.
Appunto per questo, in ossequio all’art. 10 della Legge Delega n. 23/2014, è opportuno e urgente riformare totalmente il processo tributario, sottraendo la gestione al Ministero dell’Economia e delle Finanze (che è una delle parti in causa) e rendendo paritaria ed effettiva la difesa del contribuente, senza alcuna limitazione processuale, così come esposto nel mio progetto di legge, condiviso da UNAGRACO, attualmente in discussione al Parlamento e consultabile sul mio sito (www.studiotributariovillani.it).
Oltretutto, rendere il processo tributario un vero processo, con tutte le garanzie probatorie, consente ai giudici tributari di avere una visione organica e pienamente documentale di tutti i fatti oggetto di causa che, secondo me, può rendere i giudici stessi immuni da ipotesi di travisamento dei fatti o delle prove.