Adriano Giannola, presidente Svimez (credits ph. Stefano Segati)

Riconnettere l’Italia tutta perché assuma un ruolo di leadership nel Mediterraneo. Questa in sintesi la sfida che lancia Giannola in una analisi a tutto tondo sul Mezzogiorno

 

Presidente, nel vostro ultimo Rapporto quella che sembra una buona notizia: è calata la disoccupazione «implicita» nel nostro Paese. A livello nazionale quanti cercano lavoro, compresi i Neet, sono passati da 3,5 milioni nei primi due trimestri del 2021 a 2,3 milioni nello stesso periodo del 2023. A ben guardare però nel Mezzogiorno 4 lavoratori su 10 hanno un’occupazione a termine da almeno cinque anni. Il lavoro al Sud resta quindi un problema di qualità e di reddito?

Non condivido l’ottimismo sui numeri dell’occupazione perché frutto di una lettura semplicistica dei dati. Nei fatti questa occupazione è in buona percentuale “precaria”, e a termine per una quota molto rilevante. Statisticamente occorre poco per essere considerati occupati: è sufficiente infatti avere lavorato anche solo un’ora nella settimana di rilevazione Istat per risultare tali, a prescindere dal reddito raggiunto. In realtà questa notevole disponibilità di lavoro – influenzata significativamente dall’eliminazione del Reddito di Cittadinanza e, quindi, dal ritorno anche al sommerso – non ha migliorato i salari, nè la condizione economica delle famiglie.

Se invece ponderassimo anche fattori come il reddito, dovremmo necessariamente convenire che il mercato del lavoro italiano è in condizioni disastrose, nonostante il 12/15% di lavoratori a rischio povertà abbia un lavoro, contro una media europea del 9,4%. Gioverebbe essere più realisti.

La proroga della Decontribuzione Sud può aiutare ancora il Mezzogiorno e quanto sarebbe importante diventasse una misura strutturale?

È innegabile che la decontribuzione sia utile per le imprese, purché si riconosca che resta una forma di assistenza e non uno strumento per sostenere la crescita. Basterebbe ricordare che, prima dell’accordo Pagliarini – Van Miert del 1994 (Ministro del bilancio il primo e Commissario il secondo, ndr), la decontribuzione, allora totale, era l’unica forma di politica di sviluppo attuata per il Sud, utile sì a ridurre il costo del lavoro ma non a innescare processi di reale espansione. Il punto su cui lavorare sarebbe un altro: le nostre imprese, in prevalenza piccole e addirittura micro, non sono competitive a causa di un sistema che ha puntato tutto sulle ridotte dimensioni, con la retorica dei distretti, del localismo. La conseguenza di questa errata visione è stata che, nel giro di vent’anni, la nostra manifattura, la più creativa in Europa seconda solo alla Germania, è diventata fragilissima. Oggi, che le svalutazioni non sono più possibili, paghiamo un prezzo altissimo in mancanza di competitività che non può essere compensato con misure come la decontribuzione. Competiamo con una mano legata per certi versi, perché nel nostro Paese da troppo tempo non si sono messe in ordine le priorità, tra cui la prima era e resta la riduzione delle disuguaglianze tra le due aree del Paese. Perfino i provvedimenti legati a Industria 5.0 non cambieranno da soli il volto della nostra economia perché interesseranno in prevalenza le imprese del Nord. Questo occorre dirlo.

Quali sarebbero allora gli strumenti utili per il Sud?

Bisognerebbe intervenire sul “Sistema Sud”, ma in un’ottica strategica di Paese. Oggi che la Mitteleuropa a trazione tedesca è diventata una regione frammentata e in parte marginalizzata, che non può più andare a est, abbiamo l’occasione di rendere forte il Mediterraneo irrobustendo il nostro Sud, che potrebbe essere il volano di questo mutamento anche grazie al reshoring e all’accorciamento delle catene del valore. Ma il Mezzogiorno va infrastrutturato, attrezzato con i porti e i retroporti, a partire dalla Sicilia passando per tutte le sue regioni per arrivare poi fino a Trieste e Genova. Se non lo facciamo, le imprese non avranno mai i benefici di questo ribaltamento strategico di prospettiva.

Non possiamo rimanere alla finestra aspettando che sia l’Europa a dirci di ridurre le distanze e fare coesione sociale con il PNRR; dobbiamo noi come Paese puntare a Sud per rimettere in moto la nostra economia e non solo. Non basta la “quota Mezzogiorno” che prevede che il 40% delle risorse allocabili territorialmente sia destinato a territori al Sud. Si potrebbe anche dare meno ma meglio, con una chiara strategia e gerarchia negli obiettivi. Per tutte le transizioni in atto – energetiche, climatiche e così via – il Sud è strategico, ma va attrezzato sciogliendo i nodi scorsoi che ne limitano lo sviluppo da troppo tempo, completando ad esempio nei tempi previsti opere come la Napoli Bari. Se, così non dovesse essere, il PNRR avrà fallito, perché non avremo fatto quanto non solo necessario ma prioritario per rendere fruttuoso in termini di sviluppo il nostro Paese, bene posizionale dell’Europa nel Mediterraneo. La soluzione della crisi italiana è riconnettere l’Italia tutta, assumendo un ruolo di leadership nel Mediterraneo. Le dinamiche geoeconomiche ci favoriscono.

Nel Rapporto si rimarca ancora una volta quanto pesi sull’occupazione femminile la carenza di servizi all’infanzia e all’istruzione primaria. Eppure, nella revisione del PNRR proprio gli investimenti negli asili nidi sono stati definanziati…

È così, anche se viene detto che le risorse saranno recuperate altrove. Da più di dieci anni noi della Svimez segnaliamo quanto grave sia il problema demografico italiano, individuandone cause e rimedi. Le proiezioni raccontano che, al 2080, il Sud avrà perso circa 8 milioni di abitanti, invecchiando di molto e perdendo le sue migliori intelligenze: tra il 2002 e il 2021 il Mezzogiorno ha subìto un deflusso netto di 808mila under 35, di cui 263mila laureati. Il trasferimento è quindi anche finanziario da Sud a Nord, con le famiglie che si impoveriscono per consentire ai figli emigrati una vita si spera migliore al Nord.

Questo accentua quella che noi chiamiamo “eutanasia della questione meridionale”. Un aiuto per invertire la rotta potrebbe essere dato proprio dall’occupazione femminile, che se aumentasse di almeno a 10 o 20 punti, contribuirebbe in positivo sul Pil e, più in generale, sulla sostenibilità prospettica dell’intero Paese. È chiaro quindi che definanziare i servizi all’infanzia è un errore marchiano che, ci auguriamo, trovi adeguata soluzione.

Il Mezzogiorno rischia anche la “desertificazione sanitaria”, specie se prenderà forma l’autonomia differenziata. Oltre alla fuga da Sud a Nord per farsi curare, il rischio è che moltissimi giovani vengano attratti da migliori condizioni lavorative offerte al Nord. È così e, più in generale, crede che il disegno Calderoli troverà concreta attuazione?

Guardi, su questo tema sarebbe bene che Calderoli dicesse chiaramente qual è il suo piano. A leggere l’articolo 4 del disegno di legge che porta il suo nome, appare evidente che l’autonomia sarà solo un primo tempo, seguita dalla costituzione di una macro regione del Nord autonoma, ma non fuori dallo Stato.

Il disegno Calderoli a ben guardare altro non è che una cessione di sovranità alle regioni da parte di quello stesso Governo che vuole il premierato. Una contraddizione evidente ma al momento del tutto ignorata. La proposta di Calderoli – al comma 1 dell’articolo 4 – stabilisce che vadano creati i fondi perequativi per finanziare il LEP, i famosi livelli essenziali delle prestazioni. In mancanza di questi, non sarà possibile trasferire funzioni dal Centro alle Regioni.

Al comma 2 dello stesso articolo, però, viene detto che tutte le altre materie, eccetto quindi istruzione, sanità e mobilità locale, sono immediatamente trasferibili sulla base delle intese previste ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione. Autostrade, aeroporti, porti, beni culturali, protezione civile e legislazione sul lavoro, solo per citarne alcune, sono materie concorrenti che possono essere oggetto di immediato trasferimento. Così facendo si costituzionalizza la spesa storica in tutte le altre materie, perché le intese sono approvate con una legge dal Parlamento, il quale non può emendarle perché si tratta di una legge rinforzata e in quanto tale irreversibile, a patto che non lo voglia la regione coinvolta con lo Stato nell’intesa stessa con un nuovo accordo.

Chiaro che la regione che se ne avvantaggia non vorrà di certo cambiarla. Successivamente le regioni potranno organizzare organismi comuni per gestire interessi comuni, come previsto dalla Costituzione all’articolo 117 comma 8 legge. Ribadisco, le intese non potranno essere emendate in Parlamento e nessun referendum abrogativo sarà possibile perché si tratterà di una legge “rinforzata” speciale che definisce per ogni singola regione l’autonomia ad essa spettante. La maggiore autonomia una volta concessa può rivelarsi pertanto irreversibile. Se passa questa legge, condanniamo il nostro Mezzogiorno a scomparire come entità rilevante.

Veniamo infine alla politica industriale: anche quest’anno il rilievo è che manchi una visione di medio-lungo periodo per il nostro Paese. La Zes unica creerà vantaggi per il sistema produttivo meridionale?

È difficile dare un giudizio netto perché esistono delle ambiguità quando si parla di Zes unica. Anche qui siamo di fronte innanzitutto a una contraddizione in termini. Da un punto di vista tecnico, una Zes è un particolare territorio molto ben definito che va attrezzato per diventare attrattivo per particolari motivi tra cui l’esistenza di un porto. Prendiamo l’esempio di Tangeri in Marocco: si tratta di una ZES che, in pochi anni, è passata da 0 a 40mila addetti perché una casa automobilistica estera va a montare le sue vetture nel retroporto, per poi esportarle in Cina godendo sì di una fiscalità di vantaggio, ma creando al contempo indubbio valore aggiunto e occupazione. Strutturata così la Zes è uno strumento di estrema efficacia. Parlare invece di una fiscalità di vantaggio per tutto il Mezzogiorno, a mio avviso, è solo un modo per far rivivere lo spirito della vecchia politica assistenzialista. Per il momento però sospendiamo il giudizio, seguendone l’evoluzione.

Nel suo ultimo Rapporto, il Censis ha definito gli italiani sonnambuli…

Non lo eravamo quando si alternavano anche due governi all’annovperchè a tenerci svegli c’era una visione condivisa che oggi manca del tutto. Siamo un paese cloroformizzato in cui, mentre da un lato la madre Europa ci aiuta a non essere ramenghi indicandoci la rotta fatta di coesione sociale e riduzione delle disuguaglianze, nei fatti si discute di premierato e autonomia differenziata. Forse la lezione della Grecia non l’abbiamo mai imparata.