Chiarimenti sulla deducibilità dei costi dei servizi intercompany
La recente sentenza della Cassazione n.25566, depositata il 27 ottobre 2017, ha fornito ulteriori chiarimenti in merito alla scivolosa tematica delle condizioni di deducibilità dei costi per i servizi tra società del medesimo gruppo.
L’assunzione di base della questione che agita tutti i gruppi di imprese è che i servizi intercompany, siccome scambiati tra controparti non indipendenti, possano in realtà nascondere, o essere strumento per, riallocazioni improprie di utili o perdite, al solo fine di ottenere una ottimizzazione fiscale complessiva di gruppo.
E tale preoccupazione, recepita da sempre anche a livello OCSE, ha la sua fondamentale esplicitazione proprio nelle prestazioni di servizi, le quali, mancando della realità tipica delle cessioni di beni, possono meglio prestarsi a manovre elusive concordate. In questo ambito, possono generalmente distinguersi prestazioni intercompany rese “one to one”, che in questo articolo tralasciamo, e i cc.dd. “cost sharing agreement” (CSA), ovvero gli accordi di ripartizione tra tutte le società del gruppo di costi sostenuti da una sola di esse, frequentemente, la controllante.
I CSA, nello specifico, gestiscono le modalità di ribaltamento di costi di natura generale sostenuti a livello centrale, ma nell’interesse pro quota di ciascuna delle società controllate e quindi la loro natura può essere vastissima (amministrativa – finanziaria -legale – HR – logistica – commerciale – e così via). Oggetto della citata sentenza sono stati proprio questi ultimi, che, data la loro estesissima configurabilità, sono quelli più temuti e osservati dall’OCSE e, ovviamente, dall’AGE, soprattutto nell’ambito di gruppi internazionali. Nel caso della sentenza si trattava di costi per sevizi resi dalla casa madre per la gestione e implementazione del portale relativo alla telefonia mobile, riaddebitati/ripartiti in base a una percentuale predeterminata, seppure variabile, del costo sostenuto dalla casa madre per il settore mobile.
La Cassazione ha ritenuto che, ai fini della deducibilità dei costi, è necessario verificare in termini quantitativi concreti il rapporto tra i costi e il beneficio della società, essendo quest’ultimo uno degli elementi fondamentali per la valutazione dell’inerenza.
Questa presa di posizione è abbastanza in linea anche con l’orientamento ministeriale sin dal 1980 (circ. Min. Finanze 22 settembre 1980 n. 32), che subordina la deducibilità dei costi da CSA all’effettività e all’inerenza della spesa all’attività d’impresa, esercitata dalla controllata e al reale vantaggio che deriva a quest’ultima.
In buona sostanza, l’inesistenza della contrapposizione di interessi, tipica di ogni transazione tra controparti non indipendenti, obbliga i soggetti che vi intervengono, ad un processo di determinazione della natura dei servizi e dei relativi prezzi più complesso rispetto a operazioni ordinarie, onde evitare la contestazione della violazione di taluno dei requisiti previsti dall’art. 109 del TUIR per la deducibilità dei costi.
Non basta quindi che il costo sia contrattualizzato e contabilizzato, occorre che esso sia certo, determinato o determinabile e di competenza, ma soprattutto inerente.
Il concetto di inerenza nei rapporti intercompany, tuttavia, si presenta più rigido, in quanto maggiormente ancorato a quello di coerenza e di utilità economica (Cassazione 12 aprile 2017 n. 9466). In una parola, pure secondo le linee guida dell’OCSE, l’inerenza di un costo intercompany deve misurarsi anche in termini di congruità rispetto al valore della prestazione che si intende ripartire, posto che l’antieconomicità porta sempre alla indeducibilità.
Venendo al concreto, e sulla base delle indicazioni provenienti sia dalla prassi ministeriale che dalla Giurisprudenza, i gruppi di imprese nazionali (per quelli internazionali, ci sono le Transfer Pricing Policy) che utilizzano la struttura dei costi accentrati, da ripartirsi sulle controllate, per (cercare) di evitare contestazioni, dovrebbero seguire queste guide lines di massima:
- identificazione chiara delle funzioni e delle prestazioni comuni che vengono accentrate e dell’interesse delle controllate a riceverle;
- determinazione analitica (a preventivo e a consuntivo) del costo delle funzioni che si intende riaddebitare;
- verifica della inesistenza di casi di eccessiva onerosità, rispetto al corrispondente valore di mercato;
- identificazione di idonei drivers di riaddebito dei vari costi o centri di costo comuni, tenendo conto che appare irragionevole utilizzare un solo parametro (ad esempio: il fatturato delle controllate) per ogni tipo di ripartizione;
- applicazione di un mark up remunerativo della gestione della procedura;
- stipula di appropriati CSA, aventi data certa, con articolazioni contrattuali adeguate e chiara esplicitazione delle prestazioni rese;
- verifica della inesistenza di duplicazioni di funzioni – costi della medesima natura presso le singole controllate;
- da ultimo, predisposizione di un set documentale ovvero di un processo di rendicontazione, a seconda dei casi, che sia in grado di attestare l’effettiva erogazione delle prestazioni.
Una sottolineatura merita la verifica dell’inesistenza di una struttura autonoma della controllata che, ai fini della deducibilità del costo, è essenziale, come anche stabilito dalla CTR di Milano (sentenza n. 123/36/2015) che ha subordinato tale deducibilità proprio all’assenza di identica struttura idonea a porre in essere i servizi forniti dalla controllante.
Infine, l’aspetto della documentabilità delle prestazioni rese non deve essere sottovalutato, posto che è proprio su tale punto che l’AGE spesso ha vinto le sue “battaglie”.
Il quadro che emerge può per certi versi portare a pensare che, per sottrarsi al rischio fiscale, sia meglio rinunciare all’accentramento delle funzioni e perdere efficienza, ma nella realtà non è così.
Occorrono solo una buona organizzazione aziendale e la normale attenzione che deve porsi nella gestione di un gruppo, facendo ricorso, ove possibile, anche alla procedura del consolidato fiscale, che, tranne i casi di frode e di differenti detraibilità dell’IVA, dovrebbe un po’ scoraggiare le smanie accertatrici dell’AGE.