Oggi, i paesi sono impegnati assiduamente a creare le condizioni migliori per convincere le imprese ad insediarsi nel proprio mercato creando occupazione e sviluppo. Giuseppe Recchi, Presidente Eni che in Confindustria ha la delega per gli investitori esteri, rampogna l’Italia per aver intercettato una quota molto bassa di quei 1,400 miliardi di dollari che, mediamente, ogni anno viaggiano per il mondo alla ricerca di opportunità di investimento. E non è un problema di costi, visto che Paesi che ne hanno anche di più alti del nostro, come la Svizzera e la Francia, riescono ad attrarre molti più capitali esteri
Ingegner Recchi, partiamo dal capitolo energia: lei ha di recente scritto della rivoluzione dello shale gas postulando quali potrebbero essere le conseguenze di breve e lungo periodo per l’economia mondiale. La sola America se ne avvantaggerà? L’Europa è fuori gara?
La rivoluzione dello shale gas ha dato agli Stati Uniti un enorme vantaggio per le industrie ad alta intensità energetica e, più in generale, per le manifatturiere; stiamo assistendo ad un netto deterioramento della competitività europea rispetto a quella degli Stati Uniti. In Europa sono presenti risorse paragonabili ma scontiamo la mancanza di una vera politica energetica comunitaria di lungo periodo, oltre che la difficoltà a ritrovare contemporaneamente i fattori di successo che hanno favorito lo sviluppo dello shale gas negli Stati Uniti. Il risultato è che paghiamo più di due volte il prezzo dell’elettricità negli Stati Uniti e più di tre volte per il gas.
Sullo shale gas gli esperti si dividono in apocalittici e integrati: c’è chi come il capo economista di British Petroleum Christof Ruehl lo ritiene, rispetto alle rinnovabili, un sistema più economico per sostituire il carbone e tagliare le emissioni di gas serra, chi invece ne denuncia l’invasività per via del “fracking”, il processo di fratturazione idraulica per estrarre shale gas a causa del quale si perforerebbero le rocce con alcune sostanze chimiche. Lei da che parte sta?
Io credo che vi sia anche un po’ di disinformazione. Lo shale gas è stato oggetto di un allarme ambientale che, visto lo stato avanzato della rivoluzione dello shale gas negli Stati Uniti, pare sostanzialmente ingiustificato. Gli ambientalisti hanno rilevato che l’estrazione del gas da scisti impoverisce risorse d’acqua sostanzialmente limitate. In parte questo è vero: la tecnica del fracking richiede l’utilizzo di consistenti quantità d’acqua. Per ogni pozzo sono necessari 20 milioni di litri di acqua che deve essere poi trattata o smaltita alla fine del processo. Allo stesso tempo, anche in questa nuova attività industriale la tecnologia produrrà i suoi effetti e alcune imprese stanno investendo abbondanti risorse per sviluppare metodi estrattivi che riducano la quantità d’acqua utilizzata. Alcuni hanno sostenuto che il liquido derivante dal fracking inquini il terreno circostante e, di conseguenza, possa avvelenare le acque sotterranee. Tutti i timori sono legittimi e comprensibili, ma andrebbero riconsiderati alla luce dei fatti. Per esempio, secondo la Environmental Protection Agency del governo degli Stati Uniti, non c’è stato neanche un caso conclamato di inquinamento della falda acquifera causato dal fracking, anche se in teoria potrebbe succedere. Questo, malgrado il fatto che ogni anno vengono perforati più di 20.000 nuovi pozzi negli Stati Uniti.
In Confindustria lei ha la delega per gli investitori esteri. La domanda è quindi obbligatoria: cosa fare per potenziare l’attrazione degli investimenti nel nostro Paese? Il piano Destinazione Italia potrà fare da volano?
Per attrarre gli investimenti è necessario cogliere le nuove dinamiche della globalizzazione. Oggi i paesi competono tra di loro per attrarre una quota sempre maggiore di quei 1,400 miliardi di dollari che, mediamente, ogni anno viaggiano per il mondo alla ricerca di opportunità di investimento. Il nostro Paese ha intercettato una quota molto bassa di questi capitali.
Il piano Destinazione Italia contiene numerose misure utili per sostenere l’internazionalizzazione, lo sviluppo e il rilancio della competitività delle imprese del nostro Paese che necessitano di essere attuate: alcune disposizioni, come il credito di imposta per attività di ricerca e sviluppo, le disposizioni in materia fiscale che rafforzano l’istituto del ruling internazionale, il desk presso l’Agenzia delle Entrate per gli investitori esteri e il tribunale delle imprese per le multinazionali sono state inserite nel DL 23/12/13 n. 145 recentemente approvato dal Parlamento; tutte le altre misure, invece, aspettano ancora di essere attuate.
Handicap determinanti per l’Italia sono la burocrazia bizantina e il sistema giudiziario molto lento, che creano incertezza dei diritti e dei contratti. É l’incertezza che spaventa. Paesi con costi anche più alti del nostro, come la Svizzera e la Francia, riescono ad attrarre molti più investimenti esteri.
Quali Paesi potranno nel prossimo futuro interessarsi al nostro?
I principali paesi esportatori di capitali sono già interessati al nostro Paese ma dobbiamo fare molto di più. Oggi, i paesi sono impegnati assiduamente a creare le condizioni migliori per convincere le imprese ad insediarsi nel proprio mercato creando occupazione e sviluppo.
L’Italia è un paese sostanzialmente manifatturiero. Il pericolo di deindustrializzazione secondo lei è una minaccia reale?
Sì, oggi l’Italia si trova in competizione non solo con i paesi asiatici il cui PIL cresce a ritmi più elevati del nostro ma anche con paesi a noi vicini come ad esempio la Svizzera, la Francia o la Spagna che hanno saputo creare condizioni per migliorare il business environment del loro paese per attrarre imprese estere.
L’Italia ha una solida, storica vocazione industriale conseguita grazie ad un tessuto imprenditoriale unico e che il mondo ci invidia. Ma per continuare a crescere, ha bisogno di capitali di rischio che scommettano sul suo futuro manifatturiero. Oltre a portare nel nostro sistema industriale tecnologia, know-how e nuova cultura d’impresa, le imprese estere rappresentano un potente veicolo per trasportare l’indotto italiano nel mondo perché inseriscono le imprese italiane nelle loro supply chain internazionali.
È presto per dare un giudizio ma non per presentare istanze: al Governo Renzi cosa chiede Confindustria, cosa gli imprenditori, cosa il Paese?
L’obiettivo vitale per il nostro Paese è la crescita economica perché solo con il ritorno a ritmi di sviluppo del PIL pari ad almeno il 2% sarà possibile creare sviluppo e posti di lavoro ponendo le basi anche per uno stabile e duraturo risanamento dei nostri conti pubblici.