Reverse Charge e Split Payment: scompare l’IVA dalle casse delle imprese

Marco Fiorentino WebA seguito di queste nuove modalità di assolvimento dell’imposta, è prevedibile fin da ora uno scollamento temporale tra l’insorgenza del credito e il suo rimborso, perché non è immaginabile che gli Uffici Finanziari cambino le regole e i tempi delle loro procedure di verifica sostanziale

La Legge di Stabilità 2015 (n. 190/2014) ha apportato rilevanti modifiche alle modalità di assolvimento dell’IVA, attraverso l’estensione del meccanismo del reverse charge ad ulteriori tipologie di operazioni imponibili e l’introduzione del cosiddetto “Split Payment” per le operazioni effettuate nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni.
Il regime del reverse charge viene esteso al settore energetico, alla grande distribuzione organizzata e all’edilizia e si applica a far data dall’1.1.2015, ad eccezione delle operazioni con la GDO, che invece necessiteranno di apposita autorizzazione UE.

Per il settore energetico, andranno in inversione contabile IVA, tra gli altri, i trasferimenti di quote di emissioni di gas ad effetto serra, i certificati relativi al gas e all’energia elettrica, le cessioni di gas e di energia elettrica, mentre per la GDO, il reverse charge riguarderà le cessioni di beni a supermercati, ipermercati e discount.
Relativamente al settore edilizio, che rappresenta l’ambito certamente più significativo, è stata introdotta la lettera a) ter all’art. 17 co 6 DPR 633/1972, e quindi vanno in reverse charge le prestazioni di servizi di pulizia, di demolizione, di installazione di impianti e di completamento relative ad edifici.
Nella relazione di commento, il Governo ha precisato che tali disposizioni completano il recepimento dell’art. 199 par. 1 lett. a) Direttiva 2006/112/CE, avente intenti di contrasto alle frodi fiscali.

Si precisa che il nuovo reverse charge va ad affiancarsi alle altre norme IVA, che già prevedono l’applicazione di tale regime, alle prestazioni di servizi, compresa la manodopera, rese in campo edile da soggetti subappaltatori nei confronti di imprese, che svolgono attività di costruzione o ristrutturazione di immobili ovvero nei confronti dell’appaltatore o di un altro subappaltatore.

Ne consegue che, nel settore edilizio si è determinata la coesistenza di due regimi di reverse charge e può essere utile analizzarne le differenze sostanziali.
Il nuovo reverse charge non ha limitazioni soggettive circa i destinatari delle prestazioni sensibili: vi rientra qualsiasi soggetto passivo IVA nei confronti del quale tali prestazioni sono rese, mentre nel vecchio reverse charge l’applicabilità è limitata solo ad alcuni operatori nell’ambito della catena di lavoro (sostanzialmente gli appaltatori, con espressa esclusione dei cc.dd. “Contraenti Generali”).
Il nuovo regime non riguarda soltanto le prestazioni in subappalto, ma tutte le operazioni rese, anche nei confronti dei committenti o dei contraenti generali, a prescindere dal loro settore di attività.

Così come per il vecchio reverse charge, anche il nuovo non trova comunque applicazione nel caso di committenti soggetti privati o equiparati (enti non commerciali e similari).
Stando alla formulazione letterale della norma, ai fini dell’applicazione del nuovo reverse charge, non dovrebbe rilevare il codice attività del prestatore, ma piuttosto l’effettiva natura del servizio reso, a differenza del vecchio reverse charge, dove la qualifica dell’operatore è uno dei suoi presupposti.

Molti rimangono i dubbi, tuttavia, sull’applicazione del nuovo regime. Mi riferisco, ad esempio, al caso delle commesse cosiddette “chiavi in mano”, con classi di lavori miste (fuori e dentro reverse charge), ovvero alla esatta formulazione degli ambiti merceologici di applicazione, posto che la norma è abbastanza generica, per cui appare auspicabile un intervento di chiarimento organico dell’AGE.

Sotto il profilo contabile è noto che il reverse charge pone l’obbligo dell’assolvimento del tributo in capo allo stesso soggetto che ha diritto alla detrazione dell’imposta.
Ne consegue che il fornitore emette una fattura senza applicare imposta, con l’annotazione “inversione contabile” e l’acquirente integra la fattura ricevuta con l’indicazione dell’aliquota e della relativa imposta e la registra sia tra le vendite che tra gli acquisti.
Particolare attenzione occorre prestare alle sanzioni per omessa annotazione dell’inversione, che, pur in assenza di danno all’Erario, vanno dal 100% al 200% dell’imposta.
Passando allo “Split Payment”, la norma prevede che in tutte le cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate nei confronti dello Stato ed equiparati, l’IVA sulle vendite, in deroga all’ordinario sistema, è versata non più dal cedente o prestatore, ma dal cessionario o committente.
In sostanza, capovolgendo in un certo senso i principi dell’IVA, nelle operazioni con la P.A., il debitore d’imposta ai sensi dell’art. 17 – ter DPR 633 citato, è lo Stato stesso.

L’ente pubblico liquida al fornitore solo l’imponibile e versa l’IVA direttamente all’Erario, secondo modalità da definirsi in un decreto ministeriale di prossima emanazione
Con la Nota n. 7 del 9 gennaio 2015, il MEF ha affermato che il meccanismo dello Split Payment, si applica alle sole operazioni fatturate a partire dal 1° gennaio 2015, mentre per le operazioni fatturate entro il 31 dicembre 2014 l’IVA dovrà essere assolta secondo le modalità ordinarie.
La Nota ha anche chiarito che non sono soggette allo Split Payment le operazioni per i quali l’ente è tenuto agli obblighi di reverse charge, e le prestazioni assoggettate a ritenute alla fonte a titolo di imposta sul reddito (lavoratori autonomi).
La disciplina risulta efficace già dall’1.1.2015 ed è stata svincolata dall’autorizzazione da parte dell’UE. Tuttavia, in caso di mancato consenso, la Legge di Stabilità ha già previsto che le conseguenti minori entrate saranno coperte da un congruo innalzamento della accise.
Quest’ultimo inciso consente di introdurre il delicato argomento degli effetti concreti che deriveranno alle imprese con il nuovo reverse charge e lo split payment. Tali istituti, sebbene profondamente diversi tra loro, appaiono in realtà accomunati dal solito unico obiettivo di fondo rappresentato dall’aumento del gettito. Basta poco infatti per comprendere che tutti i soggetti operanti nei nuovi regimi verranno a trovarsi con crediti IVA strutturali, venendo a mancare, in sede di calcolo delle liquidazioni periodiche, tutta l’imposta a debito relativa alle operazioni attive.
Ed è per tali ragioni che il Legislatore ha dovuto prevedere la possibilità di richiedere a rimborso l’eccedenza con periodicità annuale e trimestrale ai sensi, rispettivamente, degli artt. 30 comma 3 lett. a) e 38bis comma 2 DPR citato, secondo un decreto attuativo, che disciplinerà le modalità di rimborso prioritario di tali crediti. Ma non credo che tale previsione sia sufficiente a compensare il danno che si creerà.
Per un insieme di ragioni anche abbastanza banali.
Innanzitutto, recuperare il credito IVA attraverso rimborso, sebbene prioritario o (addirittura) trimestrale, significa dare corso ad una clamorosa burocratizzazione delle attività dell’impresa, che sarà costretta ad aprire tante “pratiche” con l’AGE, quante saranno le esigenze finanziarie che l’IVA non riscossa avrà generato, con quotidiani documenti da fornire, richieste da evadere e chiarimenti da dare. Appare poi facile prevedere uno scollamento temporale tra l’insorgenza del credito ed il suo rimborso, perché non è immaginabile che gli Uffici Finanziari – al di là di ogni proclama politico – cambino le regole ed i tempi delle loro procedure di verifica sostanziale.
Non solo, ma mettere in sostanza il diritto allo scomputo dell’IVA acquisti nelle mani dell’AGE, vuol dire attribuire a quest’ultima, in deroga ovviamente alle regole generali, il potere di congelarlo in presenza, ad esempio, di debiti erariali a ruolo, ovvero di dubbi sulla documentazione ricevuta o sulle operazioni effettuate, con un rischio di atteggiamenti arbitrari veramente altissimo.
Si creeranno di fatto due macro categorie di imprese: quelle ordinarie, che potranno scomputare come riterranno l’IVA vendite, e quelle, mi si passi il termine, sfigate, che, per lo stesso obiettivo, dovranno combattere praticamente ogni mese: da un lato, per cercare gli smobilizzi finanziari dell’IVA (a costi di mercato) e dall’altro lato per adempiere alle richieste dell’AGE locale. Effetto finale: minore equilibrio finanziario se non peggio (si pensi ad esempio alle imprese di pubblici servizi e forniture) e maggiori costi, sia finanziari che organizzativi. E quest’ultima considerazione si riscontra già nel concreto: molte aziende hanno dovuto rivedere in peggio i loro budget economico-finanziari del 2015 e successivi, proprio per tener conto dell’effetto distorsivo di tali norme.
Ma se l’obiettivo era quello di recuperare gettito – magari per riprendersi un po’ di denaro dato con le maxi tranches di pagamento degli anni trascorsi – mi domando perché non si sia ritenuto più semplice aumentare direttamente le accise, che sono peraltro trasversali a tutta la platea dei contribuenti, invece di mettere in piedi tutto questo meccanismo contorto, che colpisce solo alcuni ed è foriero di contestazioni.
Come pure, se i nuovi regimi sono dipesi anche da superiori ragioni antievasive, mi chiedo perché, anziché migliorare i sistemi di controllo sui “cattivi”, si continua a fare norme che penalizzano intere categorie di imprese e che, alla fine, mai colpiscono gli evasori, che, come noto, sulla violazione della norma, di qualsiasi norma, basano il loro operare.

 

Domande banali, ma le risposte forse non lo sono.