Per evitare il rischio di tassazione delle rinunce unilaterali, sarà indispensabile adottare soluzioni societarie diverse e probabilmente più onerose per la capitalizzazione delle società attraverso l’utilizzo dei crediti dei soci
Nell’ambito delle società di capitali, specie a ristretta base partecipativa, è molto frequente il ricorso alle risorse finanziarie dei soci, attraverso appositi finanziamenti (principalmente infruttiferi) anziché tramite operazioni di aumento del capitale sociale.
Ciò in quanto lo strumento del debito è più flessibile, quasi sartoriale nelle sue possibili configurazioni, ma soprattutto perché, nei limiti del rispetto dell’art.2467 o del 2497 quinqies del Codice civile, il suo rimborso al socio non soggiace alle rigorose procedure di legge, previste invece per la restituzione di somme versate a titolo di capitale sociale.
La citata flessibilità operativa fa sì che, in presenza di perdite di esercizio – specialmente quando queste conducano alle situazioni di cui agli artt.2446 e 2447 del Codice civile – tali finanziamenti possano essere utilizzati anche per ricapitalizzare le società.
Le modalità giuridico-contabili con cui tali ricapitalizzazioni avvengono sono svariate e tra queste la più frequente è la remissione del debito, più conosciuta come rinuncia al credito da parte del socio finanziatore.
Focalizzandoci sulle possibili implicazioni delle suddette rinunce ai fini dell’imposta di registro, una recente sentenza (n.4754 del 22 febbraio 2024) della Cassazione ha delineato in modo abbastanza articolato lo scenario normativo di riferimento, che tuttavia appare scivoloso e desta una certa preoccupazione.
Da quanto si desume dalla sentenza, la controversia traeva origine da una verifica fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate nei confronti di una società, nel corso della quale i verificatori avevano recuperato una scrittura tra un socio e la società, in cui veniva stabilita la parziale rinuncia a un finanziamento soci, finalizzata alla ricapitalizzazione della stessa società per un ingente importo.
Facendo proprie le ragioni dell’Agenzia delle Entrate, la Corte ha ritenuto che tale scrittura, sebbene mirante ad evitare la riduzione di capitale della società, contenendo una remissione di un debito, non poteva ritenersi un atto societario ma doveva essere soggetta all’imposta di registro proporzionale.
Secondo il ricorrente, invece, l’applicabilità dell’articolo 6 citato doveva escludersi, in quanto la rinuncia era finalizzata ad una ricapitalizzazione della società e per l‘effetto andava annoverata tra i cc. “atti di natura societaria”.
Questa differente qualificazione consentiva – a parere del ricorrente – l’applicazione dell’art.9 della Tabella DPR 131/86, che prevede che non sono soggetti a registrazione gli atti di società, diversi da quelli indicati all’articolo 4 della Parte Prima Tariffa (operazioni straordinarie e sul capitale) e che questi ultimi, per il caso in specie, comunque, sono soggetti al registro ad importo fisso.
In buona sostanza, per la Corte la scrittura in questione non poteva ritenersi un atto societario, perché mancante dell’espressione della volontà assembleare, essendo invero un atto di rinuncia individuale da parte del socio.
Questa conclusione appare pacifica, in quanto se esiste una scrittura privata tra le parti, che ha ad oggetto una remissione di debiti, si applica l’imposta dello 0,50%, ai sensi dell’art.6 Tariffa Parte Prima del DPR131/86.
La vera questione trattata dalla Corte sembra in verità riguardare la rilevanza ai fini accertativi di un documento (la rinuncia) recuperato durante le attività di verifica fiscale.
Purtroppo, dalla sentenza non emerge se la scrittura privata fosse tale o se si trattasse di un atto realizzato tramite scambio di corrispondenza.
La differenza appare importante e il dubbio sorge perché il ricorrente tra le doglianze, aveva anche richiamato l’art.1 Tariffa Parte Seconda, che stabilisce che gli atti indicati all’art. 6 precedente (la remissione del debito) sono soggetti a registrazione solo in caso d’uso, qualora si realizzino attraverso scambi di corrispondenza.
E su questo presupposto aveva chiesto alla Corte di escludere che la raccolta del documento di rinuncia durante la verifica fiscale potesse essere considerato “caso d’uso”.
La Corte ha cassato anche tale rilievo ritenendo possibile, ai sensi dell’art.15 DPR citato, la registrazione d’ufficio per le scritture private non autenticate, soggette a registrazione quando l’amministrazione finanziaria ne abbia avuta visione nel corso di accessi, ispezioni o verifiche eseguiti ai fini di altri tributi. La perentoria conclusione della Corte appare condivisibile nel caso di atto non realizzato tramite scambio di corrispondenza, ma sarebbe dirompente nel caso contrario.
In questo denegato scenario, infatti, tutte le rinunce a crediti, e in particolare quelle da parte dei soci destinate alla patrimonializzazione delle società – qualunque sia la forma giuridica prescelta – diventerebbero soggette a tassazione.
In aggiunta, si verrebbe anche a snaturare il senso della registrazione (e tassazione) solo “in caso d’uso”.
Laddove venisse confermato questo approccio, per evitare il rischio di tassazione delle rinunce unilaterali, sarà indispensabile adottare soluzioni societarie diverse e probabilmente più onerose per la capitalizzazione delle società attraverso l’utilizzo dei crediti dei soci.