Il presidente del Gruppo Alimentare di Confindustria Salerno insiste sulla necessità di una visione complessiva che accomuni tutti gli attori in campo: «Senza saremo costretti a ricavarci solo “nicchie” di mercato»
Expo 2015 rappresenta una grande opportunità per promuovere le produzioni agroalimentari della Campania e della provincia di Salerno. Su quali asset vincenti, a suo giudizio, occorre puntare?
Ritengo che l’Esposizione Universale in corso a Milano si configuri come irripetibile opportunità di realizzare una vera e propria piattaforma di business con tutte le aree del mondo con cui potenzialmente è possibile stabilire relazioni commerciali. Il problema di fondo è la carenza di organizzazione di sistema che emerge giorno dopo giorno. Nonostante gli sforzi messi in campo dalle singole imprese e dalle associazioni di rappresentanza, non siamo ancora riusciti ad ottimizzare la valenza della nostra proposta basata su un asset vincente molto semplice: la qualità che siamo in grado di esprimere e il know how operativo che ci consente di essere indicati come un modello virtuoso al di là delle strumentalizzazioni in chiave commerciale inerenti il grave problema della bonifica di alcune contenute porzioni di territorio regionale. Scontiamo, inoltre, forti ritardi nella rappresentazione in termini di marketing della qualità delle nostre produzioni e, nello stesso tempo, ancora non è possibile avvalerci di partnership con canali distributivi adeguati alla domanda di Made in Italy di Paesi anche al di fuori della zona Ue.
Il modello delle industrie alimentari salernitane punta sul rapporto fra alimentazione, territorio e cultura locale. In che modo questi tre concetti sono collegati?
Alimentazione-territorio-cultura delle tipicità locali sono i pilastri del percorso di crescita che l’agroalimentare meridionale e italiano ancora non ha avuto la capacità di compiere fino in fondo. Ma, ripeto, il problema sostanziale deriva dalla mancanza di una visione complessiva che accomuni tutti gli attori in campo: filiere istituzionali e produttive, rappresentanze datoriali, corpi intermedi espressione del mondo del lavoro, componenti del circuito della formazione. Senza un gioco di squadra vero, non andremo avanti e saremo costretti a ricavarci solo “nicchie” di mercato, sebbene importanti. Insomma, l’italian sounding si combatte anche aumentando la capacità di penetrazione nella grande distribuzione internazionale. Non è solo una questione di rafforzamento dell’immagine del Made in Italy, ma soprattutto di reale impatto sulle dinamiche produttive e distributive, capace di sollecitare una maggiore tutela delle produzioni italiane a tutti i livelli.
Restando in tema, come si articolerà l’iniziativa Expo e i Territori?
Credo che la reale valenza di questa iniziativa sia individuabile proprio nella “filosofia” che ho provato a sintetizzare prima. Tutti gli attori del territorio – senza “guerre” perché abbiamo la fortuna specie al Sud di possedere profili di originalità in ogni singola provincia, oltre che in ogni singola regione – quando si mettono insieme intorno ad un tavolo e fanno sinergia, esprimono un valore aggiunto che diventa determinante nel momento dell’offerta sui mercati. Si tratta di un approccio scontato al di fuori dell’Italia (vedi i casi virtuosi nell’agroalimentare di Francia e Germania), ma che evidentemente è ancora un’eccezione soprattutto al Sud. In ogni caso la strada, ormai, è tracciata e come sistema confindustriale stiamo profondendo il massimo sforzo: occorre trasformare le filiere produttive (tra le prime al mondo) in filiere operative a tutti gli effetti. E per raggiungere questo obiettivo la partnership pubblico/privato deve diventare sempre più snella ed efficace.