Storia di una chat fatale

Licenziato un dipendente – adescato, sotto mentite spoglie, dal suo capo del personale esasperato dal comportamento illecito dello stesso – per essersi connesso ripetutamente durante l’orario di lavoro a una piattaforma social

La sentenza della Corte di Cassazione n. 10955 del 27 maggio scorso ha una sua peculiarità perché sul “caso” non sembrano esserci specifici analoghi precedenti.
La Cassazione, infatti, con motivata pronuncia conferma il licenziamento di un dipendente che, durante l’orario di lavoro, chattava tramite la piattaforma americana Facebook con una donna, il cui falso profilo era stato, però, costruito artatamente dal responsabile del personale con l’obiettivo di contestare il grave inadempimento commesso dal dipendente.
IL FATTO
L’operaio licenziato era addetto alle presse stampatrici, attività che richiedeva continua attenzione, diligenza e cura dell’impianto.
Il soggetto in questione, invece, aveva già in alcune occasioni dimostrato negligenza allontanandosi dal posto di lavoro per rispondere a telefonate personali.
La pressa proprio in questa circostanza era stata bloccata da una lamiera e danneggiata; di rimando al lavoratore era stato contestato il notevole inadempimento contrattuale.
Nello stesso giorno, inoltre, era stato reperito nel suo armadietto un dispositivo elettronico collegato con la rete elettrica mentre nei giorni successivi era stato visto conversare con il suo cellulare su Facebook.
Dopo tali episodi al dipendente era stato notificato il licenziamento per giusta causa.
In primo grado il giudice adito aveva ritenuto di applicare nel caso de quo una tutela attenuata stabilendo che non vi fossero le condizioni per la reintegrazione nel posto di lavoro, seppur richiesta dal dipendente licenziato.
La Società pertanto, in applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, era stata condannata ad un risarcimento pari a ventiquattro mensilità.
Il giudice aveva escluso, nel caso di specie, l’applicazione della tutela forte prevista in caso di licenziamento discriminatorio previsto dalla Riforma Fornero l.92/2012.
La Società soccombente, però, aveva impugnato tale sentenza e la Corte di Appello ne aveva accolto le motivazioni, riformandola, dichiarando la legittimità del licenziamento inflitto e condannando il dipendente alla restituzione delle ventiquattro mensilità. Anche la Cassazione con sentenza richiamata in oggetto aveva poi giudicato correttamente provato e legittimo il licenziamento, confutando le difese poste in essere dal dipendente.
Questi aveva sostenuto che l’accertamento posto in essere dalla Società costituiva violazione dell’articolo 4 della legge 300/70, in quanto il responsabile del personale – dopo aver creato un falso profilo di donna su Facebook – aveva richiesto l’amicizia al ricorrente con cui aveva poi chattato in più occasioni in orari di lavoro e dall’azienda, come successivamente dimostrato tramite geolocalizzazione.
Contro il comportamento dello stesso responsabile del personale era stato avviato un procedimento penale da parte del dipendente.
Lo stratagemma adoperato dall’azienda per accertare le sue conversazioni telefoniche via internet durante l’orario di lavoro costituiva, secondo la difesa del dipendente, una forma di controllo a distanza, vietato dall’articolo 4 del succitato statuto (peraltro ora modificato dalla emanazione del decreto attuativo sui controlli a distanza nell’ambito del Jobs Act) e in violazione dei principi di correttezza e buona fede previsti dall’articolo 1175 c.c..
La Cassazione lo scorso maggio ha ritenuto, invece, la liceità del controllo difensivo anche occulto da parte datoriale, in quanto tale controllo non ha presentato le caratteristiche di continuità, anelasticità, invasività e compressione dell’autonomia del lavoratore nello svolgimento della sua attività lavorativa.
L’azione svolta dal responsabile del personale per “incastrare” il dipendente atteneva ad una mera modalità di accertamento dell’illecito commesso dal lavoratore che, peraltro, utilizzando Facebook era ben consapevole che la piattaforma consentisse la geolocalizzazione assumendosene pertanto i rischi conseguenti.
La Cassazione aveva anche aggiunto che tale attività non ha avuto ad oggetto la prestazione lavorativa più propriamente detta e il suo esatto adempimento, ma la eventuale perpetrazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, poi effettivamente riscontrati.
Il controllo difensivo peraltro ex post era, dunque, destinato secondo la Cassazione a riscontrare e sanzionare un comportamento idoneo a ledere il patrimonio aziendale sotto il profilo del regolare funzionamento degli impianti e della sicurezza degli stessi.
Anche dal punto di vista della proporzionalità tra il fatto illecito e la sanzione espulsiva la Cassazione ha ritenuto legittima la massima sanzione disciplinare, essendo venuto meno l’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro.