Per il fondatore di Greenopoli occorre creare consapevolezza, diffonderla e spingere all’azione
Professore, nel suo fare educazione ambientale, lei parte innanzitutto dall’uso corretto dei termini. La seguo e, pertanto, le chiedo: sostenibilità ambientale cosa vuol dire?
La prima cosa che viene in mente quando si pensa alla parola “sostenibilità” è la propensione di un oggetto a essere sostenuto e, quindi, sostenibile per un certo tempo. Quando trasportiamo qualcosa, inizialmente quel peso ci sembra lieve. Col tempo, però, quello stesso oggetto diventa sempre più pesante e la nostra capacità di portarlo diminuisce, fino ad arrivare al punto di doverlo mollare. Il peso da trasportare deve essere compatibile con le nostre forze e con il tempo necessario per portarlo a destinazione. Per estensione, quindi, la sostenibilità ambientale può essere intesa come la capacità dell’ambiente di sopportare gli effetti delle pressioni esercitate dalle attività antropiche per un determinato periodo di tempo.
Cambiare il linguaggio modifica la realtà?
Cambiare linguaggio può contribuire in maniera significativa a modificare (in meglio) la realtà. Oggi, tuttavia, anche gli addetti ai lavori usano termini inappropriati come “buttare” con riferimento alla raccolta differenziata. “Buttare” significa letteralmente “lanciare con forza”. A me non pare che quando “raccogliamo” un materiale da avviare a riciclo noi lo “scagliamo”, ma lo “raccogliamo”. Né buttiamo il sacchetto dell’umido nel bidone condominiale: lo “conferiamo”. Ai bambini insegno tutto questo a suon di rap: “Buttare, gettare, li voglio cancellare, rimettiamoci a pensare: è tempo di cambiare!”
Dare un giusto nome alle cose significa descrivere un processo culturale e intellettuale di primaria importanza. In tema ambiente a che punto è la nostra collettività globale e, più nello specifico, quella del nostro Paese?
L’aggettivo “globale” richiama alla mente il “global warming”, cioè gli effetti del cambiamento climatico dovuti alla innaturale crescita della concentrazione dei gas ad effetto serra in atmosfera. La situazione è preoccupante. Non si sta facendo abbastanza sia a livello globale, sia a livello nazionale. Occorre creare consapevolezza e spingere all’azione.
Tutto ciò che non è riciclabile è un errore di progettazione e, come tale, va ripensato perché il “prodotto” diventi in futuro completamente biodegradabile. È d’accordo? La strada è questa?
“Biodegradabile” non significa “più sostenibile”. Occorre valutare gli impatti ambientali di un prodotto lungo il suo intero ciclo di vita, attraverso le fasi di ideazione, estrazione e lavorazione delle materie prime, produzione, imballaggio, trasporto, uso e fine vita (riuso, riciclo, smaltimento). La strada è realizzare prodotti che abbiano cicli di vita sempre più leggeri. Non è detto che un prodotto biodegradabile abbia un ciclo di vita più leggero di un omologo non biodegradabile. I prodotti devono essere ideati in modo che siano facilmente disassemblabili in materiali omogenei da avviare al relativo processo di riuso o recupero.
In controtendenza con le mode del momento, lei rimarca l’utilità della plastica e l’ipocrisia del proclama “zero impianti”. Anche certe posizioni sono quindi figlie del green washing?
In questo momento abbiamo una percezione “alterata” della realtà e molti pensano che qualsiasi cosa vada a finire in mare. I materiali separati in casa e avviati al riciclo vanno agli impianti di selezione e poi al riciclo o al recupero energetico. Occorre sempre ragionare in termini di ciclo di vita. Un oggetto in plastica monouso ha un ciclo di vita breve, perché esaurisce la sua utilità con un singolo utilizzo. Pensiamo, invece, ad un’automobile che consuma, inquina ed emette CO2 in modo proporzionale al suo peso. Che cosa consente all’auto di pesare e inquinare sempre meno? La plastica! Non potremo mai fare a meno degli impianti di trattamento ed è proprio la loro assenza dal territorio l’origine di tanti impatti ambientali e di tariffe salate. La Campania nel 2017 ha inviato fuori regione 580mila tonnellate di umido. La principale destinazione è stata Padova: un assurdo spreco di danaro (ben oltre 200 Euro a tonnellata a fronte di 80-90 Euro dove ci sono gli impianti) e un’altrettanta assurda produzione di impatti ambientali dovuti al trasporto.
Convinca i cittadini y ad accettare l’impianto x nel loro comune.
I cittadini y non vanno convinti ad accettare l’impianto x nel loro comune, ma resi pienamente consapevoli e partecipi di un processo di localizzazione chiaro e trasparente. Il punto di partenza è chiarire quale sia il territorio sul quale fare la scelta localizzativa. Spiegare per bene e con i tempi giusti i motivi che richiedono la presenza dell’impianto e poi individuare tutte le possibili alternative localizzative. Le alternative vanno confrontate grazie a opportuni criteri localizzativi e ordinati in ordine decrescente rispetto alla loro propensione ad ospitare l’impianto x. A questo punto si conduce un dettagliato studio per verificare l’effettiva validità del sito ad ospitare l’impianto di trattamento. Se lo studio dà esito positivo si procede con la costruzione dell’impianto, altrimenti si passa alla valutazione di dettaglio del secondo sito in graduatoria, e così via. Oggi, purtroppo, si procede con la tecnica dell’“annuncia e difendi” che ha dimostrato la sua inefficacia in tutto il mondo. I cittadini vogliono capire “perché” l’impianto vada realizzato proprio nel loro comune.
L’utopia serve a camminare. La sua qual è?
La mia utopia si chiama Greenopoli, un’idea del 2006 che ha preso le forme di un sito internet, una pagina facebook, un metodo didattico, un progetto educativo e un libro: “Il Metodo Greenopoli”. Da dicembre 2014 a oggi, Greenopoli mi ha portato in più di 300 scuole dove ho potuto dialogare con più di 50mila bambini, i veri attori del cambiamento.
Chi fa più fatica a guardare avanti?
Senz’altro gli adulti, che stentano a guardare avanti e a credere nel cambiamento.