«Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: “non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre». Così José Saramago, nel suo ultimo e breve capitolo del Viagem a Portugal modella gli incanti di un viaggio che si chiama vita per incitare il lettore a trasformare il proprio quotidiano in libro maestro di ricordi, in progetto ampio, fatto di memorie, di narrazioni.
Consapevole con Saramago che il viaggio più affascinante è quello che si consuma di minuto in minuto, di ora in ora, di giorno in giorno, e senza arrendersi alla paura di rivedere i luoghi di sempre o di cadere nella routine quotidiana, Grazia Menna ha affidato al suo sguardo affilato il compito di raccogliere e registrare le storie che scorrono davanti ai propri occhi per disegnare un itinerario estetico fortemente legato alle scienze umane, a gusti di natura sociologica e sociografica, antropologica e antropografica.
Sin dal 1983, quando incontra la sua prima reflex, Menna ha fatto infatti della fotografia il luogo di una riflessione e, nel contempo, il punto di partenza di un cammino che si è spinto, negli anni, tra i sentieri del reportage. Dalla Cambogia al Vietnam, dall’India alla Birmania, dalla Cina all’Indonesia, dal Cile al Perù, dalla Nuova Guinea all’Africa (Benin, Burkina Faso, Egitto, Etiopia, Mali, Togo), per inoltrarsi via via, con gli States (Houston, Los Angeles, San Francisco, New York: e come non ricordare l’America di Warhol), nell’ambito di una antropologia del contemporaneo, Menna ha disegnato indagini brillanti su alcune organizzazioni tribali (Arunachal Pradesh, Surma e Dani, volendone citare alcune) e sulle società del presente, più strettamente metropolitane.
«Ritengo che il mio lavoro sia una forma di segnalazione antropologica, un’indagine sulla realtà tribale, sparata interamente in bianco e nero», avverte l’artista in una dichiarazione di poetica.
Accanto a questa vocazione – nel 1994 ha vinto, tra l’altro, la IV. edizione del premio Sebastiano Oschman Gradenigo – il cui racconto mira a rompere «la distanza tra lo spettatore e il soggetto attraverso la frammentazione e la vicinanza che rendono l’immagine inevitabile e penetrante», Grazia Menna presenta, oggi, un vibrante percorso di stampo podismantropologico, mi si lasci passare il lemma, dove i corpi diventano colpi poetici, sussurri e sussulti, atti frenati da uno sguardo che taglia le parole, che isola espressioni e gesti, che trattiene a sé gli strati emotivi della vita.
Si tratta di circa quarantasette scatti realizzati a Roma, e più esattamente a Largo Preneste, negli ambienti della SSD Roma Calcio Femminile (durante il campionato di Serie B 2016/2017), che nascono da un nuovo lavoro sul campo. «Esiste un luogo, metaforico o meno, che è il teatro di ogni azione calcistica e di ogni azione antropologica», ha avvisato qualche anno fa Bruno Barba: e questo luogo è, appunto, «il campo. L’antropologo come il calciatore, per essere degno di visibilità e credibilità, in altri termini per svolgere il proprio lavoro, deve “stare” sul campo».
L’occasione di vivere a stretto contatto con figure atletiche, bambine, ragazze e donne che hanno scelto il gioco del calcio come spazio di azione, non è per l’artista voglia di cavalcare il crescente interesse da parte delle scienze sociali nutrito verso la calciologia, piuttosto aguzzo desiderio di vivere in prima persona un ambiente sociale, di confrontarsi con un’atmosfera sportiva per restituirne momenti, allenamenti, disposizioni, scontri, dribblate, sospensioni.
A primo acchito, guardando questo nuovo ciclo fotografico allestito negli spazi dell’Archivio Menna/Binga – sede romana della Fondazione Filiberto Menna e organizzato in collaborazione con il Lavatoio Contumaciale, si ha come l’impressione di essere di fronte a un mondo frammentario, vivo, pungente, profondamente vissuto ma invisibile, rigidamente fisso eppure vibrante di vita poiché racconta il gioco, un fatto sociale totale, così lo ha definito in tempi non sospetti Marcel Mauss in un saggio giovanile dedicato alle techniques du corps.
Poche le immagini in cui è possibile riconoscere un volto o una parvenza di muliebrità: nella foto scelta per la locandina si scoprono le unghie curate e smaltate di una mano che regge il pallone, in un’altra di tre corpi sospesi è visibile la capigliatura lunga domata dalla semplice coda di cavallo o da stretti chignon: «il calcio femminile non è assolutamente inferiore al maschile, è inferiore solo per visibilità e per guadagni».
Sono, queste immagini in Tacco & Punta, azioni atletiche croccanti e potenti, restituite da uno sguardo impegnato che mostra il vigore di corpi portati al limite, sospesi e quasi catapultati al di là del tempo, in un’arena o in una «nuova cattedrale» dove tutti, con un po’ di allenamento oftalmico, osserverebbero comodamente che queste nuove scene bloccate da Grazia Menna rappresentano il ritmo della preparazione e quello del raduno «celebrato in un luogo posto al centro della scena da ventitré officianti e qualche comparsa» che brillano allo stadio, il giovedì e la domenica, assieme ai loro spettatori.