Per riallineare nel medio periodo i risultati dell’economia di un Paese che appare sempre di più spaccato in due perché non provare a ridurre subito drasticamente le imposte e il prelievo previdenziale, in modo che non superino il 35%, e a riposizionare la spesa nei limiti di tale taglio e vedere l’effetto che fa?
Sono in giro per Milano e ascolto, con quasi nessuno stupore, gli ultimi dati SVIMEZ sulla diminuzione del PIL nazionale nell’ultimo anno: la decrescita registrata nel Mezzogiorno è quasi doppia rispetto a quella segnata dal Nord. Le stime per il 2014, tra l’altro, confermano che il trend si invertirà nel Nord, registrando una variazione positiva (seppure lieve); previsioni ancora col segno meno per il Sud.
Non mi stupisco, dicevo. L’impressione, passeggiando per il capoluogo meneghino, è quella di una città in movimento, fatta a misura dell’uomo che lavora. Il parametro di confronto è quello di una città a dimensione nord europea.
Tornando verso Napoli, rifletto sulle difficoltà della nostra terra: ubicazione logistica disagiata, minori opportunità di lavoro e, per questo, una platea di consumatori più dediti al risparmio che al consumo e all’investimento. Il parametro di riferimento è quello di una città dell’Europa del Mediterraneo, che arranca sotto i colpi della crisi.
Mi interrogo sulle ragioni di un tale squilibrio e finisco per ricadere nel circolo vizioso di una crescita rallentata da un peso del Fisco che, seppure ai limiti della tolleranza nelle aree non in ritardo di sviluppo, paralizza ogni prospettiva di crescita nel Mezzogiorno.
Gli ultimi dati forniti da Eurostat evidenziano, infatti, che il peso del fisco sul Pil è aumentato nel 2012 al 44%, collocando il Bel Paese al secondo posto in Europa dopo l’Ungheria.
Andando a guardare più a fondo nei dati forniti dall’Osservatorio, si nota come la tassazione più elevata sul lavoro si registri in Svezia (58,6%), Olanda (57,5%), Austria (57,4%) e Germania (56,6%). In Italia, sempre nel 2012, era al 51,1%. Al di sotto del 40% il Regno Unito (38,9%).
Insomma, la pressione fiscale italiana è cresciuta di quasi quattro punti negli ultimi dieci anni, arrivando al livello dei paesi scandinavi. Tuttavia, il confronto – avvenuto tutto in un giorno – fra il capoluogo lombardo e quello campano accentuano nel mio immaginario l’enorme divario esistente nel livello dei salari, nella qualità della vita e dei servizi offerti dal Pubblico rispetto ai Paesi del Nord Europa.
La Spagna negli ultimi dieci anni è addirittura riuscita ad abbattere la pressione fiscale. La Germania è al 39,1%, agli stessi livelli del 2002. L’Olanda è al 39%, la Polonia al 32,5% e la Gran Bretagna al 35,4%.
I dati sembrano confermare la mia impressione: troppe imposte aumentano il divario nei livelli di crescita fra i territori.
Qual è la ricetta del Governo per contrastare tale fenomeno?
Pier Carlo Padoan ha dichiarato che «l’idea del Governo è duplice: semplificare la vita del contribuente onesto, spostare il carico fiscale in modo che ci sia più crescita e lavoro». Sulla ripartizione del carico tributario, Padoan aggiunge che «la strategia è tassare molto meno lavoro e impresa e di più la ricchezza finanziaria».
Mi sembra una buona strada; vale la pena di ragionare, tuttavia, sulla strategia per percorrerla.
Leggo sui giornali di oggi (31 luglio 2014, ndr) della polemica fra Cottarelli e Renzi sugli utilizzi degli effetti della spending review.
L’idea del primo è quella di indirizzarne gli effetti proprio su una brusca diminuzione dei livelli di tassazione per stimolare la crescita. Sembra, invece, che la direzione seguita dal Governo sia quella di utilizzare i tagli di spesa per coprire alcune falle del nostro sistema (ad esempio quelle create dalla sciagurata vicenda degli esodati).
É difficile dire chi abbia ragione.
Nel frattempo, un altro cavallo di battaglia degli ultimi Esecutivi, quello della lotta all’evasione, sembra smorzarsi giorno dopo giorno. Equitalia pare non stare più simpatica nemmeno al Governo e le intuizioni di Befera sul Redditometro, tanto osannate in precedenza, dopo nemmeno un anno di applicazione, sono già state bollate come fallimentari.
É complicato dire dove sia la verità.
Mi viene in mente uno (dei tanti) slogan di uno (dei tanti) Governi Berlusconi a proposito di tasse ed evasione fiscale: «pagare tutti, pagare meno». La mia insegnante di Lettere al Liceo ne avrebbe riso, come amava fare, bollandolo con il suo intercalare «ma è lapalissiano!», e forse avrebbe avuto ragione, proprio per l’ovvietà del proclama.
Provo, però, a partire proprio dalla banalità di tale affermazione per fare alcune riflessioni.
Un’altra reminiscenza scolastica mi ricorda che invertire l’ordine dei fattori non modifica il risultato; insomma il motto lapalissiano di Berlusconi potrebbe anche scriversi «pagare meno, pagare tutti». Sembra un sofisma, ma non lo è.
L’inversione prelude ad una inversione anche nelle priorità da perseguire: non bisogna costringere tutti a pagare per conseguire l’effetto di pagare meno ma, piuttosto, far pagare meno per costringere tutti a pagare. Mi spiego.
I dati Eurostat mi dicono (ma me lo aveva suggerito, per l’ennesima volta, già la lettura della mia dichiarazione dei redditi) che in Italia il peso delle tasse è insostenibile prelevando, in alcuni casi, fino ai due terzi (fra imposte e previdenza) del reddito netto. In uno scenario del genere la tentazione di evadere – peraltro mai condivisibile in uno Stato di diritto – è forte, perché lo sdegno sociale per gli sprechi le ruberie e, diciamoci la verità, l ‘ingiustizia di fondo del dover lavorare fino a settembre per lo Stato hanno un peso specifico nell’immaginario collettivo molto forte.
Ma se il livello di tassazione e il prelievo previdenziale non superassero il 35% la tentazione sarebbe ancora così forte? Varrebbe ancora la pena di rischiare di cadere sotto la scure di un controllo?
Credo, onestamente, di no!
Insomma, perché non provare a ridurre subito drasticamente le imposte e a riposizionare la spesa nei limiti di tale taglio e vedere l’effetto che fa?
Forse il risultato potrebbe essere proprio quello di invogliare tutti a pagare, cercando di riallineare nel medio periodo i risultati dell’economia di un Paese che appare sempre di più spaccato in due.