Sul tema la Suprema Corte di Cassazione, in via generale, si è espressa in termini positivi, ritenendo prevalente l’interesse pubblico alla prevenzione e accertamento dei reati rispetto alla riservatezza dei lavoratori
L’art. 4 dello Statuto dei lavoratori (L. 300/1970), così come modificato nel 2015 dal c.d. Jobs Act (D.Lgs. 151/2015, integrato dal D.Lgs. 185/2016), disciplina la materia dei controlli a distanza dei lavoratori da parte del datore di lavoro.
La norma, diversamente dalla formulazione originaria che prevedeva un divieto assoluto di utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, attualmente stabilisce, al comma 1, che l’impiego di tali impianti e apparecchiature dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dei lavoratori è legittimo esclusivamente per precise finalità, quali esigenze organizzative e produttive, sicurezza del lavoro e tutela del patrimonio aziendale, e solo in presenza di un previo accordo collettivo con le RSA o le RSU, oppure con le associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale in caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione o in più regioni. Qualora tale accordo manchi, gli impianti e gli strumenti in questione possono essere installati previa autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro (INL).
La norma, al comma 2, prevede che non è necessario l’accordo con le rappresentanze sindacali o l’autorizzazione dell’INL in presenza di strumenti in uso al lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e di strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. Essa consente, infine, l’utilizzo delle informazioni raccolte ai sensi dei citati commi 1 e 2 a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro, purché i lavoratori siano adeguatamente informati circa le modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal Codice privacy (D.Lgs. 196/2003, così come modif. dal D.Lgs. 101/2018), atteso che la raccolta, la registrazione ed, in generale, l’utilizzo di immagini costituisce un trattamento di dati personali.
Ai sensi dell’art. 171 del Codice Privacy, il datore di lavoro che violi l’art. 4 dello Stat. Lav. risponde del reato di cui all’art. 38 del medesimo Statuto, punito con l’ammenda da Euro 154 ad Euro 1.549 o con l’arresto da 15 giorni ad un anno.
Nei casi più gravi, le pene dell’arresto e dell’ammenda sono applicate congiuntamente, ordinandosi la pubblicazione della sentenza penale di condanna nel sito internet del Ministero della Giustizia (art. 36 c.p.). Quando, infine, per le condizioni economiche del reo, l’ammenda, anche se applicata nel massimo, può presumersi inefficace, il giudice ha facoltà di aumentarla fino al quintuplo.
Ciò chiarito, sul tema specifico dell’utilizzabilità come prova del reato dei risultati di videoriprese svolte dal datore sul luogo di lavoro per cogliere eventuali illeciti penali ivi commessi dai propri dipendenti (cd. controlli a scopi difensivi), la Suprema Corte di Cassazione, in via generale, si è espressa in termini positivi, ritenendo prevalente l’interesse pubblico alla prevenzione ed accertamento dei reati rispetto alla riservatezza dei dipendenti. Nei casi in cui, pertanto, il datore di lavoro abbia installato telecamere all’interno dei luoghi di lavoro per esercitare un controllo a beneficio del patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, i risultati delle videoriprese sono utilizzabili nel processo penale, “(…) in quanto le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non fanno divieto dei cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l’esistenza di un divieto probatorio (…)” (Cass. pen., Sez. II, 30.1.2018, n. 4367; Sez. V, 17.3.2016, n. 11419; Sez. II, 22.1.2015, n. 2890).
La giurisprudenza di legittimità in sede penale più recente, richiamando, tra gli altri, il principio ribadito da quella in sede civile (Cass. Civ. Sez. Lav., 2.5.2017, n. 10636) secondo cui “l’interpretazione dell’art. 4 Stat. Lav. va ispirata ad un equo e ragionevole bilanciamento fra le disposizioni costituzionali che garantiscono il diritto alla dignità e libertà del lavoratore nell’esercizio delle sue prestazioni oltre al diritto del cittadino al rispetto della propria persona (artt. 1, 3, 35 e 38 Cost.), e il libero esercizio delle attività imprenditoriale (art.41 Cost.)”, ha, altresì, precisato che il datore di lavoro non è penalmente responsabile quando l’impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre, però, che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti, o debba restare necessariamente “riservato” per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite degli stessi (Cass. Pen., Sez. III, 27.1.2021, n. 3255). Secondo gli Ermellini, il divieto di cui all’art. 4 Stat. Lav. opera nel caso in cui l’utilizzo delle apparecchiature riguardi (direttamente o indirettamente) l’attività lavorativa, non quando il controllo a distanza così effettuato sia diretto ad accertare condotte illecite dei lavoratori.
Sul punto, vi è chi autorevolmente ed opportunamente evidenziato che i controlli a scopi difensivi non sono espressamente previsti dal Legislatore, ma rappresentano una categoria creata dalla giurisprudenza e che la citata disposizione si riferisce testualmente non all’attività lavorativa, ma all’«attività dei lavoratori», per cui il divieto da essa contemplato varrebbe per tutti i comportamenti dei lavoratori in azienda (Dossi G., Controlli a distanza e legalità della prova: tra esigenze difensive del datore di lavoro e tutela della dignità del lavoratore, in DRI, 2010).
La recente giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, peraltro, ha ammesso la cd. videosorveglianza occulta, ovvero l’installazione di telecamere nascoste senza informare i dipendenti, purché ciò avvenga sempre nel rispetto del principio della proporzionalità e non eccedenza della misura, a fronte di “gravi illeciti”, solo nei casi in cui essa rappresenti un’extrema ratio, non essendo possibile ricorrere a mezzi alternativi, e con modalità spazio-temporali tali da limitare al massimo l’incidenza del controllo sul lavoratore, non potendo essere intesa quale prassi ordinaria (CEDU, 17.10.2019, López Ribalda e altri contro Spagna – ricorsi 1874/13 e 8567/13).
Compito essenziale del giudice adito, in sede penale o civile, sarà allora accertare, caso per caso, se l’istallazione dei sistemi di videosorveglianza sui luoghi di lavoro sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale e, in caso di riscontro positivo, se l’utilizzo di tali impianti abbia comportato un controllo non occasionale sull’ordinario svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti, oppure sia da considerare necessariamente “riservato” (rectius, occulto) per consentire l’accertamento di gravi condotte illecite da parte dei dipendenti medesimi.