Conosciamo meglio questa artista definita “hacker dell’immaginario”, che mette spesso in discussione il concetto di identità di genere
Nel flusso incandescente dell’arte, alla fine del XX secolo, ribollono radicali trasformazioni e cambi di prospettiva. Le forme artistiche tradizionali, come la pittura e la scultura, inglobano le nuove tecnologie e i nuovi media, in uno straordinario processo di ibridazione. Già a partire dagli anni Sessanta, a tale evoluzione dei linguaggi creativi, si affianca un interesse rinnovato per il corpo, non più legato alle forme di rappresentazione tradizionali, ma come strumento di viva sperimentazione.
Nel contesto della “società dell’immagine” di debordiana memoria, in cui l’esperienza diretta si fonde e confonde con la realtà mediata, in un flusso ininterrotto di immagini e “simulacri” – per citare un altro mostro sacro, Baudrillard -, si fa strada un’idea nuova di opera d’arte, non più come qualcosa di immobile e immutabile ma come azione vivente. L’artista agisce in tempo reale, utilizzando il suo corpo come potente medium e porta di accesso ad uno spazio condiviso di esperienza hic et nunc. Prende vita, dunque, nei territori dell’intermedialità, tra teatro sperimentale, danza moderna, poesia visiva e azioni radicali, la Performance Art, grazie a movimenti avanguardisti come Dadaismo e Surrealismo. Artisti come Marina Abramovich, Carolee Schneemann, Joseph Beuys, Yoko Ono, Allan Kaprow, sono tra i primi a sfidare le convenzioni estetiche e indagare, attraverso i loro corpi, gli spazi dell’identità individuale e collettiva. Nel corso degli anni Ottanta e nel decennio successivo, nascono e si diffondono capillarmente i media digitali e il confine tra corpo, realtà fisica e realtà virtuale diventa sempre più sfumato, fin quasi a dissolversi. La sfida, allora, per molti artisti performativi (tra questi Laurie Anderson, Nam June Paik, Sterlac, Bill Viola, Orlan) diviene quella di esprimere il senso di inquietudine e alienazione dell’uomo contemporaneo, ma anche di sfruttare le potenzialità offerte dalle tecnologie emergenti nel processo creativo, per creare performance sempre più immersive e interattive.
Nel panorama attuale, particolarmente affascinante appare il lavoro di Francesca Fini.
Artista interdisciplinare e intermediale, nata a Roma nel 1970, si inserisce in un filone artistico definito “phygital”, neologismo che unisce le parole physical e digital. Fini esplora l’interazione tra corpo e tecnologia, combinando azioni performative con sperimentazione cinematografica, pittura, animazione 2D e 3D, sound design, AI. Le sue opere compiono una fusione tra virtuale e reale, in una dimensione visionaria e anticipatrice, e nascono dalla vorace esigenza di sperimentare attraverso il corpo, in un processo di ibridazione biotecnologica.
All’interno di esse, l’artista esalta, con modalità sempre nuove e attraverso l’utilizzo costante di tecnologie digitali, la natura profondamente invasiva e in rapida mutazione dei nuovi media. La grande voracità, che caratterizza il suo agire artistico, la conduce ad una ricerca spasmodica di nuovi linguaggi e modalità comunicative; al centro di tale ricerca il suo corpo oggetto/soggetto, in funzione interscambiabile. La sua prima mostra Carnival Art – Electronic Art Café è stata, nel 1995, al Palazzo delle Esposizioni di Roma; successivamente, ha presentato i suoi lavori al MACRO e al MAXXI, al Guggenheim di Bilbao, al Schusev State Museum of Architecture di Mosca, alle Tese dell’Arsenale di Venezia, al Georgia Institute of Technology, all’Accademia di Belle Arti di Bologna, e in altri contesti internazionali come New York e Helsinki.
Nel 2013, porta in giro per il mondo una delle sue live media performance (poi videoperformance) più famose, Fair and Lost. L’artista indossa degli elettrodi su entrambe le braccia e cerca di truccarsi il viso, ma le contrazioni involontarie causate dagli elettrodi sono molto forti e le impediscono di compiere movimenti controllati e consapevoli. Il makeup imbratta il suo volto e la matita nera e il rimmel, che le entrano negli occhi, sono causa di un pianto involontario.
Le lacrime sgorgano dai suoi occhi sofferenti, creando un collegamento empatico – anche quello condizionato – con chi osserva. In sottofondo, il coro del Nabucco, brano emblematico che evoca il fantasma di antiche e dimenticate lotte per la libertà. È una performance sul condizionamento sociale, che ironizza sull’isterica meccanicità di certi gesti rituali, come il truccarsi; un gesto semplice ma profondamente simbolico, che implica il tentativo di omologarsi ai canoni estetici imposti dalla società, tradizionalmente legati al genere femminile.
Il movimento inconsulto ed eterodiretto della mano rappresenta la disconnessione tra corpo e mente, tra volontà e possibilità di scelta. La performance fa parte di un più ampio progetto, WITH AN HALMET, che nasce nel 2012.
Nel 2018, mette in atto un’altra delle sue perturbanti live performance dal titolo SKIN/TONE. Se, come afferma il filosofo francese Jean-Luc Nancy, siamo un corpo nel mondo e la nostra pelle è elemento fondante nel rapporto tra noi e ciò che ci circonda, l’artista fa della sua pelle, ponte tra sé e l’altro da sé, un’opera d’arte caleidoscopica, mostrandola al microscopio digitale e ironizzando sul concetto di biometria come sistema di variabili che, attraverso vari dispositivi (ad esempio, quelli per il riconoscimento della retina o delle impronte digitali), consente (o dovrebbe consentire) l’identificazione affidabile e la catalogazione degli individui. L’intento dell’artista è quello di esaltare l’inaffidabilità e l’imprevedibilità dell’identità, l’impossibilità di ingabbiarla. Attraverso l’elaborazione digitale, l’epidermide si traduce in un’infinita e multicolore varietà di combinazioni, perdendo ogni contatto con la realtà empirica. Anche in questa performance, Fini mette in discussione il concetto di identità di genere: il corpo, in questo processo di digitalizzazione, perde la sua identità sessuale. Nel 2024 all’Ibrida Festival di Forlì con la sua personale Body (S)cul(P)ture ancora un navigare tra umano e tecnologia.
Francesca Fini è stata definita una “hacker dell’immaginario”, il suo lavoro artistico ci offre una visione altra del mondo. Affrontando tematiche come la condizione umana e l’identità di genere, ci invita a riflettere su come le nuove tecnologie plasmino la nostra percezione e i nostri gesti quotidiani. Il suo è un percorso in continua evoluzione che, attraverso mezzi e linguaggi sempre diversi, scardina preconcetti e convenzioni e cerca di svelare l’anima nascosta tra il tangibile e l’infinito digitale.