Trasformazione digitale da Sud: un sogno possibile?

Ai fini della facilitazione e dell’accompagnamento della transizione tecnologica e digitale, viene riconosciuto un ruolo rilevante ai Centri di competenza scientifica che puntano a creare forme aggregative coinvolgendo imprese, startup e altri attori dell’ecosistema locale e nazionale

 

Ciascuno cresce solo se sognato, una bella poesia scritta da Danilo Dolci sociologo, poeta, educatore che negli anni ’50 si trasferisce in Sicilia dove promuove una lotta nonviolenta contro la mafia, la disoccupazione, l’analfabetismo e la fame. Mentre leggevo gli esiti dell’ultimo Rapporto Svimez, mi sono tornate in mente le parole di questa poesia e anche il lavoro maieutico di Dolci, fatto con le persone per educarle alla “cittadinanza attiva”, se così vogliamo chiamarla.

Collegando il tema della trasformazione digitale, di cui mi occupo, con alcune importanti indicazioni “di metodo” che escono dal Rapporto Svimez mi viene da pensare che anche una realtà territoriale cresce solo se sognata e cresce se, chi ne fa parte, si sente ingaggiato nella realizzazione di questo sogno, sentendosi anche capace di agire un ruolo rilevante per il cambiamento di quello stesso contesto.

Il Rapporto Svimez, infatti, dice due cose molto interessanti ai fini della mia riflessione. La prima è relativa alla necessità di accompagnare le imprese alle transizioni (digitale e verde) attraverso azioni ecosistemiche, che integrino anche le istituzioni locali e centrali, utilizzando strumenti di supporto adeguati alle caratteristiche del sistema produttivo del Sud. I ritardi evidenziati dalle imprese meridionali condizionano le possibilità di accesso delle imprese ai crediti d’imposta di Transizione 4.0. Basandosi sulla domanda spontanea espressa dalle imprese, la logica dell’incentivo concesso “a domanda” non è funzionale al conseguimento dell’obiettivo di coesione territoriale del PNRR che, in questo ambito, dovrebbe tradursi nel livellamento di condizioni di partenza attualmente disallineate tra territori a causa dei differenziali regionali di dotazione di asset di competenze e tecnologie digitali. Più funzionale agli obiettivi della coesione territoriale sono le azioni a carattere maggiormente “eco-sistemico” sviluppate nella logica di “filiera” e di catching up (trasferimento di conoscenze e saperi da grandi a piccole imprese), nonché contraddistinte da un forte grado di integrazione e complementarità con le istituzioni (accademia e PA) locali e centrali.

La seconda indicazione interessante si riferisce alla necessità di accompagnare le amministrazioni locali nella realizzazione materiale degli importanti investimenti previsti dal PNRR in infrastrutture sociali che serviranno per innalzare la qualità dei servizi, con l’obiettivo di ridurre le differenze tra nord e sud rispetto alle condizioni di accesso ai diritti di cittadinanza. Le fragilità del Mezzogiorno nel recepire le potenzialità del PNRR emergono dall’analisi dei tempi di realizzazione effettivamente osservati per oltre 87mila opere pubbliche in infrastrutture sociali realizzate tra il 2011 e il 2022. Per rafforzare la capacità attuativa degli Enti locali serve un affiancamento dal Centro, mentre a livello locale devono essere pensate forme innovative di «alleanze» progettuali e attuative. Il supporto dal Centro nelle due fasi, per assorbire le risorse disponibili, e aprire e chiudere in tempo i cantieri, dovrebbe arrivare dai centri di competenza nazionali (fin qui abituati a operare con mere logiche di mercato), che dovrebbero assumere la responsabilità piena di operatori pubblici impegnati attivamente per la perequazione territoriale.

Il Rapporto Svimez, dunque, suggerisce di accompagnare e supportare gli attori del sistema sociale, economico e amministrativo per favorire lo sviluppo di nuove opportunità già presenti e date sia dall’attuale tessuto produttivo che dalla collocazione strategica del sud Italia, specie per lo sviluppo dell’industria green.

Proprio ai fini della facilitazione e dell’accompagnamento della transizione tecnologica e digitale, nell’ottica ecosistemica di cui si diceva sopra, viene riconosciuto un ruolo rilevante ai Centri di competenza scientifica che puntano a creare forme aggregative e intendono diventare nuovi hub con il compito di favorire l’aggregazione degli attori che fanno ricerca, coinvolgendo imprese, startup e altri attori dell’ecosistema locale e nazionale. È il caso del National Centre for Agricultural Technologies (Agritech), che ha come capofila l’Università Federico II di Napoli, e del National Biodiversity Future Centre (NBFC), che opererà in più ambiti connessi allo sviluppo dell’economia circolare con l’Università degli Studi di Palermo come capofila.

L’idea che il cambiamento si realizzi grazie alla partecipazione e al protagonismo di tutti gli attori presenti in ogni ecosistema significa riconoscere l’importanza della compresenza di attori tra loro differenti che, con il loro apporto, consentano di ricombinare i saperi, i punti di vista, i linguaggi, per arrivare a definire soluzioni più efficaci per affrontare la complessità. Tuttavia, intravedo il rischio che l’entusiasmo di tanti portatori di interesse la creazione ex novo di attori connettivi e hub sia rivolto più alle tante risorse disponibili che alle finalità da raggiungere attraverso le risorse stesse.

Le varie forme connettive e di collaborazione richiedono, secondo la nostra esperienza, piattaforme che favoriscano la sedimentazione di un continuo lavoro di tessitura e di ricomposizione. I processi di innovazione tecnologica e sociale, infatti, sono difficili (anche) perché coinvolgono soggetti con interessi e culture a volte molto distanti, che possono trovarsi in posizioni confliggenti. Per questo nell’hub deve essere previsto il ruolo dei connettori, cioè di attori che sappiano creare occasioni di incontro e scambio che portino le persone a condividere idee e soluzioni per nuove opportunità. Non significa che, per forza, si debbano ricomporre i conflitti attraverso una via comune, significa però che, grazie alla possibilità di esplicitare i diversi punti di vista, meglio ci si comprende e, dal momento della comprensione in poi, è possibile che si aprano fronti nuovi di interazione e nuove vite del cambiamento. È un lavoro faticoso e molto bello che necessita della capacità di essere mediatori culturali tra linguaggi che presuppongono conoscenze e saperi distanti.

Questo lavoro di ricomposizione, all’interno degli ecosistemi, è necessario se vogliamo che ogni tipo di hub che stiamo progettando diventi realmente un modello ecosistemico di confronto e sviluppo delle conoscenze che possa favorire occasioni per la sperimentazione e la diffusione delle innovazioni che siano non SU ma CON le comunità e gli attori coinvolti. Ecco perché mi risuonano le parole di Danilo Dolci pensando alle possibilità che si aprono per il nostro Mezzogiorno.“…C’è pure chi educa, senza nascondere l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni sviluppo ma cercando d’essere franco all’altro come a sé, sognando gli altri come ora non sono: ciascuno cresce solo se sognato.”