L’individuazione dei contratti di riferimento delle varie categorie sarà la chiave di volta per dare certezza alle imprese ed evidenza ai lavoratori in merito ai loro diritti
Presidente Treu, come commenta il Patto della Fabbrica?
È senz’altro un passo in avanti importante verso un sistema di regole condivise e certe, all’interno di un rinnovato e più moderno sistema di relazioni industriali. Il Patto riguarda nodi finora mai affrontati né risolti del tutto: il ruolo svolto dalla contrattazione nazionale e la relazione tra questa e il livello aziendale, la misura della rappresentatività delle organizzazioni sindacali e datoriali, i contenuti dei contratti stessi. Un passo in avanti, dicevamo, anche se non risolutivo perché alcune questioni sono rinviate all’applicazione del Patto.
In relazione agli assetti della contrattazione collettiva, realistica è stata la scelta di adottare un modello di governance adattabile.
Un no deciso a rigidità sullo schema di accordo, condivisibile e coerente, tenuto conto che il quadro economico è molto diversificato. Ciò che è certo è che al contratto nazionale spetta motivare il perché dei livelli dei vari trattamenti ulteriori rispetto ai minimi. C’è poi un’indicazione significativa circa l’esigenza di disciplinare anche gli eventuali effetti economici in sommatoria fra il primo e il secondo livello di contrattazione dei vari trattamenti, evitando quindi sovrapposizioni. In questo modo è chiaro che si incentiva lo sviluppo qualitativo e quantitativo della contrattazione decentrata, premessa fondamentale per spingere sulla competitività delle imprese e sul futuro del sistema di relazioni industriali. Si tratta di indicazioni di massima, indispensabili però per contribuire a rendere più efficiente la regolazione dei rapporti di lavoro a livello di fabbrica.
Può essere un rischio il decentramento legato alle singole condizioni della singola azienda?
No, affatto, perché si tratta di un decentramento della contrattazione salariale controllato, anche più di quanto avviene in altri Paesi. Più complicato trovo invece sia l’aspetto della rappresentatività.
Vale a dire? Il problema di rappresentanza nel nostro Paese – o come dicono i più critici di credibilità della rappresentanza – lo si risolve certificando la dimensione effettiva dei sindacati e delle organizzazioni datoriali?
La verifica sulla correttezza dei Contratti Collettivi Nazionali, insieme alla certificazione della reale rappresentanza delle sigle sindacali sulla base di elementi oggettivi (quali la rappresentatività dei soggetti stipulanti e l’effettivo grado di copertura in termini di lavoratori coinvolti), sono alcuni dei compiti specifici del CNEL, indispensabili per evitare incertezze interpretative o distorsioni nell’applicazione delle regole contrattuali. Il punto è, però, che mancano ancora – per la rappresentatività delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e anche dei datori di lavoro – criteri oggettivi di riferimento. Non esiste un sistema di misurazione definita della effettiva rappresentatività delle sigle sindacali. Va trovato insieme alle parti sociali perché 900 contratti nazionali sono inammissibili e creano grande confusione soprattutto nelle aree più deboli del Paese. Ci stiamo lavorando con tutte le organizzazioni rappresentative presenti nel CNEL. L’individuazione dei contratti di riferimento delle varie categorie sarà la chiave di volta per dare certezza alle imprese, e alle regole cui attenersi ed evidenza ai lavoratori in merito ai loro diritti.
La politica sul fronte del lavoro cosa è chiamata a fare?
La politica dovrebbe mantenere una certa continuità con quanto finora fatto di buono, magari adattandolo al momento contingente. Ciò che è certo è che devono essere le parti sociali a intervenire e sperimentare, non l’esecutivo.La priorità resta la bassa occupazione, problema che si affronta solo incrementando gli investimenti in formazione e innovazione. Il lavoro non lo si crea con azioni spot ma con interventi costanti e coerenti nel tempo.