Alla fine della telefonata noiosa, meglio dire «grazie del tempo che mi hai dedicato», invece di scusarsi per averne abusato senza autorizzazione
Quelle che mandano al manicomio, quelle che non hanno senso, quelle ereditate dal tempo che fu, quelle, soprattutto, da rottamare perché figlie di una piaggeria senza un perché ma che, almeno una volta nella vita, abbiamo pronunciato anche noi. Si dice che il classico non annoia mai, ma quando dall’altra parte del telefono arriva l’intramontabile “scusa se ti disturbo“, l’idea di parlare con una persona che deliberatamente sa di disturbare e se ne prende la briga, incurante, mi fa subito venir voglia di consultare l’elenco dei reati depenalizzati per vedere se con una mossa più elegante, ma non meno subdola, riesco a risolvere il problema alla radice.
Chi si ritiene un filo più educato si rifugia in un altro classico: “posso disturbarti?“, interrogatorio, al quale rispondo imperturbabile: “lo stai già facendo“. A chi verrebbe in mente, infatti, di autorizzare qualcuno ad un deliberato disturbo?
Chi invece è fan del lieto fine, dopo averti ammorbato nella maggior parte delle volte con richieste di favori, arriva con un pacifico “scusa se ti ho disturbato” con annesso tentativo di infusione di senso di colpa, al quale la testa risponde “ricordatelo la prossima volta” e la bocca pronuncia “figurati“, che è quasi peggio di un “vaffa“.
Sostituire la parola scusa a grazie, permesso e per piacere, parole che a parer mio consentono quasi tutto nella vita è l’abitudine più malsana che il nostro modo di parlare abbia acquisito. Alla fine della telefonata noiosa, meglio dire “grazie per il tempo che mi hai dedicato”, invece che scusarsi per averne abusato senza autorizzazione. Non che faccia guadagnare punti, ma almeno esprime un sentimento, quello della gratitudine, contro il quale è più difficile prendersela, anche quando il disturbo c’è stato.
Menzione speciale, capace di rovinarmi la giornata fin dalle prime ore, è l’accoppiata “ciao-buongiorno” che è quasi peggio dell’abbinamento sandalo calzino di spugna, ormai non più esclusiva di bandiera dei turisti tedeschi, ma anche, ahimè, di fashion blogger e piaghe simili che in teoria dovremmo ascoltare e osservare per avere un guardaroba sempre à la page. Davanti agli uni e agli altri, meglio non vedere, non sentire, non copiare.