Venti anni per una sentenza di lavoro non ancora definitiva

massimo ambronAd oggi le due parti in causa dovranno attendere il pronunciamento della Corte di Appello di Firenze, cui il procedimento è stato rinviato, nella speranza che questa si adegui alle indicazioni della Cassazione

 

 

Anche per gli addetti ai lavori la questione di cui mi accingo a trattare appare come incredibile e concorre a dare ragione a chi critica aspramente la lentezza della giustizia e i suoi gradi che appaiono eccessivi. La lungaggine dei procedimenti e i tempi di attesa sono ancora più gravi nel caso di specie, perchè trattasi di questioni di competenza dei giudici del lavoro e come tale il rito dovrebbe, secondo il legislatore, avere velocità di decisione per la specificità della materia. Invece, per la sentenza che andremo a commentare, i tempi di decisione sono stati lunghissimi per le censure poste dalla Cassazione alle sentenze delle Corti di Appello, cassate per ben due volte e, come se non bastasse, rinviate ad una terza Corte di Appello, che dovrà giudicare secondo le linee dalla stessa tracciate, visto che le prime due non lo avrebbero fatto, almeno a parere della Cassazione!


Il fatto. Il ricorrente, che in qualità di ingegnere nel settore civile aveva stipulato un contratto a progetto con una impresa di ingegneria, dopo circa due anni di attività cessò la collaborazione, precisamente nel 1993, ben 20 anni or sono.


L’ingegnere tempestivamente Impugnò la risoluzione del rapporto, chiedendo che fosse accertata la costituzione di un rapporto di lavoro dipendente e quindi la reintegrazione nel posto con risarcimento e differenze retributive. In primo grado il giudice rigettò il ricorso dopo avere ammesso ed espletato la prova testimoniale. La Corte di Appello di Roma, invece, riformò la sentenza, dichiarando la esistenza del rapporto di lavoro subordinato, la illegittimità del licenziamento e, annullandolo siccome ingiustificato, ordinò la reintegrazione nel posto di lavoro dell’ingegnere, oltre al risarcimento del danno di 36 mensilità e altre corresponsioni a diverso titolo. Ma la storia non finisce qui, in quanto la Società legittimamente propose ricorso in Cassazione cui resisteva l’ingegnere. Con sentenza 17549/2003 quindi siamo a dieci anni dal licenziamento (!): la Cassazione ritenne che la Corte di Appello «avesse riconosciuto la subordinazione sulla base dei soli elementi sussidiari, senza valutare in concreto l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, e senza attribuire alcun rilievo all’iniziale volontà delle parti quale risultante dagli atti negoziali in atti».

 

La Corte di appello della Aquila, cui la causa venne rinviata, con sentenza depositata il 5 aprile 2007, commise almeno secondo la Cassazione medesimi errori procedurali, non avendo svolto indagini ed esami relativi alle risultanze istruttorie al fine di accertare la subordinazione, limitandosi a svolgere generiche considerazioni sulla “summa divisio” tra lavoro subordinato ed autonomo, senza alcun effettivo riferimento al caso di specie. Inoltre, aggiunge la Cassazione con sentenza n. 22690/14 in commento, la Corte di Appello dell’Aquila non attribuì alcun rilievo alla volontà negoziale delle parti, attribuendo in sostanza rilievo solo a criteri sussidiari della subordinazione, come il compenso fisso, l’osservanza di un orario, la presenza del ricorrente nel piano ferie, senza considerare che il potere di indicazione che il lavoratore esercita nei confronti di altri lavoratori non costituisce in sé una manifestazione della sua subordinazione al datore, mentre «diventa segnale di subordinazione solo ove il suo potere si eserciti quale subordinata esecuzione dell’assoggettamento a specifiche direttive che il datore gli abbia impartito».  


A questo punto le due parti in causa dovranno attendere il pronunciamento della Corte di Appello di Firenze, cui il procedimento è stato rinviato, nella speranza che questa si adegui alle indicazioni della Cassazione.