Il bon ton in questo caso è laconico: i social non sono una seconda vita. Etichetta e regole restano le stesse del modo di vivere off line
Sappiamo bene che i social sono uno strumento. E una tentazione. Un mezzo democratico, aperto a tutti, che può essere utile così come dannatamente ad effetto boomerang.
Chiunque apra un profilo Instagram o Facebook sa (e lo fa anche apposta, diciamolo) di esprimersi davanti a un pubblico. Che prende nota, interpreta, giudica. Nel bene e nel male.
Spesso quello che si posta è vero, tutto vero. Ma il fatto che sia vero non significa che sia la verità. Verità intesa come la totalità di un’esistenza. È una faccia dello specchio, non lo specchio. Quello che riteniamo più idoneo a esser visto, per la gioia della condivisione, per raccontare un backstage inedito, magari per umanizzare una figura che viene solo percepita e identificata con la propria professione. O, molto spesso, per mistificare una realtà fatta di cocktail, cene, week end da sogno, shopping da fare invidia. Nel bene e nel male purché se ne rosichi.
Se lo strumento viene scambiato per lo scopo, ecco i danni.
Nel lavoro in particolare: un aggiornamento di status alle 11 di mattina a me comunica che la testa è altrove, il reality della goliardia tra colleghi se una tantum può far sorridere, se è l’abitudine significa che c’è del tempo pagato o sottratto ad altri impegni che non dura mai i 60 secondi di una storia. C’è poi la classifica delle reazioni, la conta dei like, la rispostaccia a chi giudica con leggerezza o severità. E, ma questa conta meno, la mia riflessione: è davvero necessario? Coincide con la libertà o questa libertà è solo un nuovo rebranding di una dipendenza ormai consolidata, che a turno ci rende virologi, esperti di politica internazionale, criminologi e persino medici in prima linea?
Per non parlare dei dibattiti da tigri da tastiera che appicchiamo come fuochi che ci scappano di mano tirando fuori il peggio che c’è, difficilmente peraltro sostenibile, nei toni e nella fermezza, in un confronto vis à vis.
Il bon ton in questo caso è laconico: i social non sono una seconda vita. Le regole sono le stesse. Con gli sconosciuti non serve confidenza e, spesso, non è apprezzata. Ogni tanto torniamo ad essere forme di vita off line. E usciamo da questi bunker, fin che siamo in tempo.