Comincia qui la prima di tre disamine del poetico lavoro di Daniele Girardi, artista perennemente in viaggio che si immerge spesso in nature incontaminate per ritrovare l’origine stessa della cultura
Il fascino di un viaggio, suggerivo un po’ di tempo fa ripensando L’invitation au voyage di Baudelaire, è rappresentato dalla «nostalgia di un paese mai visto», dalla curiosità, dal piacere che si nutre nell’attesa di giungere ad una destinazione, dall’intento di esplorare (di cercare) un vero paese «dove è dolce respirare la vita». Ma anche da una speranza, da un desiderio di trovare, dopo una lunga (o breve) peregrinazione alla ricerca di qualcosa. Forse semplicemente di ritrovarsi, di riscoprirsi (e ripensare alla propria fantasia), di rileggere il proprio corpo a corpo con la natura delle cose e di costruire un taccuino interiore, di creare un diario intimo – e proprio perché intimo, realmente prezioso.
Sin dai suoi primi progetti e lavori, Daniele Girardi ha riposto fiducia in questa condizione sottile – la condizione del viaggiatore e dell’esploratore, più precisamente – per produrre itinerari estetici la cui natura formale si nutre di prefissi climatici, ambientali, socio-antropologici. Inner Surface (2009), I Road (2011), What Remains (2012), Natural Industry (2012), Sketch Life Books (2012-2013) e The Great Valley Project (2013), seguono tutti questa inclinazione metodologica, questa declinazione poetica che invita lo spettatore a ripercorrere un catalogo poetico legato all’ecosostenibilità e ad una eticità che vuole prendersi cura del mondo per sentirne gli umori, gli odori, i sapori, le voci lontane che si perdono in una pastosa nostalgia di terra.
Con la recente exploration/residence organizzata dal norvegese Atelier Austmarka, Girardi ha marcato, con maggiore insistenza, questa sua vocazione poetica, questa sua volontà di eludere l’archeologia del sapere per favorire un discorso legato alla storia delle idee, «a tutto quel pensiero insidioso, a tutto quel complesso di rappresentazioni che scorrono anonimamente tra gli uomini», al rumore collaterale, alle tematiche secolari, alle lingue fluttuanti e ai temi (apparentemente) non collegati. Si tratta, infatti, di un procedimento che passa attraverso varie discipline – l’antropologia, la sociologia, l’archeologia della natura, l’alchimia e la frenologia ne sono alcune – per raccontare la storia degli aspetti secondari e marginali, per trattare e reinterpretare, con uno stile d’analisi liricamente olistico, lo splendore stesso delle cose semplici.
Invitato dal 10 al 26 novembre 2013 nella vasta foresta di Finnskogen, l’artista si immerge in una natura incontaminata per ritrovare l’origine stessa della cultura. Di una cultura innocente, di una armonia intellettuale attraverso la quale avviare un esercizio plastico – fatto di immagini, parole, oggetti, materiali minimi – che porta a nuclei espressivi dove il presente diventa continuamente passato, archivio d’una memoria che vuole conservare (anancasticamente) ogni traccia e ridefinirla, riconfigurarla, ridisegnarla secondo un dettato creativo mai pago di narrare una storia personale e passionale che si riversa naturalmente nel panorama pubblico, nel paesaggio sociale. I suoi ascoltatori assistono (presenziano), così, ad una serie di scambi, ad una serie di passaggi intermedi, ad una performatività postuma offerta attraverso fotografie – cremose come boza – che fungono da testimonianza d’un percorso, taccuini di viaggio (in alcuni casi volutamente cancellati, carbonizzati, ridotti a massa illeggibile), installazioni luminose che assemblano oggetti raccolti durante il cammino, cose catturate dallo sguardo, frammenti memoriali collezionati e catalogati con meticolosità.