Continuiamo la disamina del poetico lavoro di Daniele Girardi, un artista perennemente in viaggio
Sedimentazione e rielaborazione rappresentano la fase conclusiva del cammino di Daniele Girardi, la formalizzazione e l’impaginazione visiva, la eco di un tragitto, la testimonianza di una esperienza.
Il racconto di viaggio ha inizio il 12 novembre 2014, con un primo report in cui l’artista avvisa che intende classificare «l’email per giorni, perciò con data», e, «quando sono reperibili, anche» munite «di coordinate GPS (non c’è molto campo satellitare, ma c’è una luce fantastica per fotografare) […]».
Le coordinate preparatorie, N 60° 5’37.53” / E 12°20’50.64” (A 224m), tracciano, assieme ad una storia degli oggetti debitamente fotografati e classificati, il punto di partenza di un processo che, a dire il vero, ha a che fare con gli inizi e con le fini, con la descrizione delle continuità oscure e con i ritorni, con la consuetudine e con la desuetudine.
Il 13 novembre, dopo l’arrivo nella foresta inospitale e selvaggia, ha inizio finalmente il percorso.
«I norvegesi lo chiamano MYR», avverte l’artista in un blog che rappresenta la visual chronicles from Norwegian wilderness, «è un terreno intriso d’acqua dove i piedi sprofondano come in sabbie mobili; un passo sono come cinque, ma non si avanza» se non a stento.
Il primo step di questo itinerario estetico è legato, appunto, ad una serie di importanti flessioni creative che trasformano l’arte in vissuto quotidiano, in esplorazione, in esercizio e pratica di resistenza, in connessione con la natura selvaggia e nell’organizzazione di una poetica cartografica che disegna i punti cardinali del percorso. A questi quattro globuli che rappresentano, per Girardi, la «base e l’essenza di tutto il percorso» poiché «il vissuto ha una valenza performativa, in
quanto la radice più autentica della poetica si stabilisce nel momento preciso in cui io vivo l’esperienza e in questo caso la mia permanenza nella foresta a contatto diretto con l’ambiente circostante», fa fede un successivo momento legato più strettamente alla documentazione, alla testimonianza di ciò che è stato, alla cronaca visiva che cuce, sotto uno stesso cielo la realtà e la visione, le poetiche cartografiche, le memorie e le biografie dei percorsi.
È, questo, un ambiente d’elaborazione in cui l’artista edifica una lenta passerella – che definisce Epica degli oggetti ed archeologia dei materiali – utile a definire le attività, gli spostamenti delle cose: «A volte utilizzati altre volte sostituiti, i diversi oggetti e manufatti diventano componente fondamentale nell’attività outdoor.
Nelle differenti situazioni possono rivelarsi decisivi, come per esempio una bussola o un accendino; l’esito di una semplice azione come orientarsi o riscaldarsi può risolvere un’incognita o determinarne l’insuccesso.Nella loro funzione e/o una volta decontestualizzati in studio mi riportano a considerarli e a valorizzarli per la loro epica.
Una volta collocati in una dimensione indoor sono classificati e catalogati, per registrarne l’impiego. Le stesse Moleskine vengono sotterrate (in qualche area remota e geotaggate) e in seguito dissotterrate dal terreno; una pratica comune alla fase di scavo archeologico. Ricongiunti nello spazio, creano una relazione, diventano feticci post-natura di quello che rimane o di ciò che è stato».
Sedimentazione e rielaborazione rappresentano, infine, la fase conclusiva del cammino, la formalizzazione e l’impaginazione visiva, la eco di un tragitto, la testimonianza di una esperienza. Ma «questa è solo una documentazione», puntualizza l’artista, «il vero lavoro è stare nella foresta selvaggia», nutrirsi di visioni ataviche, di Wilderness (in un paese dove la felicità è sposata al silenzio).